giovedì 5 marzo 2020

Tesi Magistrale di Loris Liotto sul Risorgimento vicentino del 1848 a Vicenza e le commemorazioni seguite dal 1867 al 1898






CHI MUORE PER LA PATRIA, VISSUTO È ASSAI









---------N.B.   senza piè di pagina------------

Università degli Studi di Padova
Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità




Corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche




Il Risorgimento ricordato e conteso.
Le celebrazioni del 1848 a Vicenza (1867-1898)


Relatore:
Ch.mo Prof. Enrico Francia


Laureando:
Loris Liotto
Matricola: 1157036

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Dedicata a tutte e a tutti
 gli appassionati di Storia






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Suonata è la squilla, già il grido di guerra
Terribile echeggia per l’itala terra.
Suonata è la squilla, su presto, fratelli
Su presto corriamo la patria a salvar:
Brandite i fucili, le picche, i coltelli
Fratelli, fratelli corriamo a pugnar….

….. Vittoria vittoria! dal giogo tiranno
Le nostre contrade redente saranno:
Già cade spezzato l’infame bastone,
Che l’Italo dorso percosse finor;
Il timido agnello s’è fatto leone,
Il vinto vincente, l’oppresso oppressor.

(da una poesia del 1848 scritta da Arnaldo Fusinato “Il canto dei Crociati” tratta da Il quarantotto a Vicenza di Vittorio Meneghello -  Vicenza, 1885)
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Indice
Introduzione………………………….…………p. 9

I. La “maestosa” visita di Vittorio Emanuele II ed il conferimento della medaglia d’oro al valor militare…………………………………………..p. 13
1.1 L’ANTEFATTO.  IL VENETO E VICENZA DOPO IL 1848
1.2 I PREPARATIVI PER L’ARRIVO DEL RE E LA BANDIERA DI VICENZA
1.3 LA VISITA DI VITTORIO EMANUELE II
1.4 L’INAUGURAZIONE DELLA LAPIDE COMMEMORATIVA

II. La “Monumentalizzazione” del 1848. La Prima commemorazione 1867 e l’inaugurazione nel 1871 del monumento ai caduti……………………………………………….p. 35
2.1 L’OSSARIO DEGLI AUSTRIACI
2.2 I PROGETTI PER IL MONUMENTO AI MORTI ITALIANI E PER LE COMMEMORAZIONI DEL 1848
2.3 LA PRIMA COMMEMORAZIONE E L’INAUGURAZIONE DEL “CENOTAFIO” DEI CADUTI PER L’INDIPENDENZA

   III. Le commemorazioni tragiche degli anni 1896 – 1897 ……………………………………………………….p. 49      
3.1 POLITICA E AMMINISTRAZIONE A VICENZA (1870-1896)
3.2 I SEGNI DEL MITO DEL RISORGIMENTO: I MONUMENTI A VITTORIO EMANUELE II E A GARIBALDI
3.3 1896. I PRIMI DISORDINI
3.4 LA PROCESSIONE CLERICALE E LA CONTROMANIFESTAZIONE DEL 10 GIUGNO 1897

   IV. Il “grandioso” 50° Anniversario della Difesa di Vicenza 1848 ……………………………………………………….. p. 87            
4.1 IL 1898 NEL CONTESTO ITALIANO E CITTADINO
4.2 L’OMAGGIO AL XX SETTEMBRE E I PREPARATIVI PER IL 50° ANNIVERSARIO
4.3 LE TRE GIORNATE PER RICORDARE LA DIFESA DI VICENZA DEL 1848
   Conclusioni ……………………………….............................. p. 105

   Fonti d’archivio, periodici e Bibliografia ……………………………………..……………… p. 107


















INTRODUZIONE

Negli ultimi decenni la storiografia si è occupata di temi legati alla celebrazione del Risorgimento e la costruzione de “il mito”, nei vari contesti a livello locale e nazionale . Sulla scorta di questi studi, l’obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare le commemorazioni patriottiche che si verificarono a Vicenza nella seconda metà del XIX secolo. La mia analisi si è concentrata da un lato sulla monumentalizzazione e sulla relativa “sacralizzazione” dei lasciti Risorgimentali, dall’altro sul modo in cui queste ricorrenze furono vissute dai diversi soggetti politici. All’indomani dell’unificazione, a Vicenza furono subito istituite celebrazioni legate alle vicende risorgimentali e intorno a queste fu creato un vero e proprio apparato scenografico. L’evento al centro delle celebrazioni e della monumentalizzazione era la giornata 10 giugno 1848. I giorni che precedettero questo 10 giugno, vennero dedicati al rafforzamento delle fortificazioni a difesa della città berica e al perfezionamento del suo piano di difesa. Il generale Durando era in attesa, dopo averlo richiesto, dell’intervento in aiuto dell’esercito sardo, il quale non sarebbe mai arrivato. Radetzky, dal canto suo, preparò un nuovo piano per l’attacco della città, in più punti. Vennero schierati circa 40.000 uomini con 124 cannoni austriaci. La difesa, invece, consisteva in circa 11.000 patrioti con soli 38 pezzi di artiglieria. Il generale Durando inviò 5000 unità a presidiare Monte Berico e zone limitrofe tra le quali si citano il Castel Rambaldo (Villa Margherita) che era il primo avamposto, poi la stessa località colle Bella Guardia, oltre che il colle Ambellicopoli. L’ultimo sistema difensivo riguardava la grande barricata eretta attorno al Santuario di Monte Berico. Gli austriaci cominciarono ad attaccare alle prime luci dell’alba del 10 giugno, nel settore cardine dei colli berici. I soldati del generale Culoz riuscirono ad avanzare, dopo furiosi combattimenti, guadagnando a mano a mano terreno. Già in tarda mattinata, dopo aver conquistato Castel Rambaldo con il colle di Bella Guardia, gli austriaci raggiunsero l’Ambellicopoli. Qui avvenne uno scontro a fuoco tra il corpo dei Cacciatori della Colonna Culoz contro i reparti svizzeri e altri, sotto il comando di Massimo d’Azeglio. L’esito per i difensori fu purtroppo funesto. La partita decisiva si giocò nell’ultima barricata al santuario. D’Azeglio e Cialdini tentarono due attacchi che risultarono poi vani anche dalla disparità di “fuoco” dei contingenti nemici rapportati a quelli dei difensori. Dopo aver espugnato l’Ambellicopoli, la discesa austriaca verso il Santuario fu inevitabile ed il tempio si riempì ulteriormente di feriti e morenti patrioti. Intanto a Monte Berico, l’intervento del generale Durando permise ai combattenti di ritirarsi in città mentre gli stessi austriaci piazzarono, a metà salita dei Portici, in località del Cristo, i loro cannoni, che insistentemente, dalle ore 14, spararono sulle case e le vie della città, continuando le cannonate fino a sera. Questa zona, all’epoca, risultava l’unico punto di osservazione aperto sulla città, dato che non era ancora stato realizzato il Piazzale della Vittoria. A questo punto la resa diventava inevitabile. Va detto che la maggior parte della cittadinanza non fu d’accordo alla resa, vedendo sventolare la bandiera bianca sulla Torre Bissara, in Piazza dei Signori. Come risposta a questa decisione, la bandiera bianca che aveva sostituito il drappo rosso della resistenza, venne crivellata da colpi di fucile da parte di coloro che non volevano arrendersi. Si dovette nuovamente issare il drappo rosso ben visibile dagli austriaci a Monte Berico. I successivi intendimenti moderati presero il sopravvento ed anche i più ostinati dovettero accettare la capitolazione, alla ripresa delle cannonate nemiche. Anche se la data del 10 giugno ricordava una sconfitta, divenne per la città l’occasione per celebrare un evento “glorioso”, per l’ostinata e strenua resistenza da parte dei difensori. Si decise di ricordare il 10 giugno, comunque, anche per la folta e nutrita schiera di veterani e reduci, protagonisti dell’epoca, adottando, in primis, un annuale pellegrinaggio a Monte Berico. Attraverso la decisione della Giunta e l’approvazione del Consiglio comunale, veniva infatti deliberato di celebrare la ricorrenza, principalmente, con un “corteo” verso il Monte caro ai vicentini. Venivano affissi annualmente dei manifesti per notificare e sollecitare la partecipazione della collettività. Monte Berico, quindi, assurse a luogo rappresentativo dell’evento ricordato. Le celebrazioni di questa giornata dovevano rappresentare un momento di festa e di aggregazione. Queste commemorazioni, a poco a poco, furono però terreno fertile per esplicitare i dissensi politici che attraversavano la città. Per ricostruire questi eventi celebrativi del ’48 vicentino, ho utilizzato fonti d’archivio storico (Archivio Storico del Comune di Vicenza, Archivio del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza, Archivio di Stato di Vicenza e Archivio della Provincia di Vicenza), analizzando documenti, corrispondenze, copie estratte da periodici dell’epoca, avvisi, manifesti. Ho suddiviso il mio elaborato in quattro capitoli. Nel primo capitolo, ho evidenziato come la visita del re Vittorio Emanuele II a Vicenza – avvenuta nel novembre 1866 - con il conferimento solenne della medaglia d’oro al valor militare alla bandiera della stessa città berica, abbia legittimato e suggellato una certa pratica commemorativa locale. La bandiera decorata avrebbe guidato negli anni successivi il corteo del 10 giugno, lungo il pellegrinaggio. Nel secondo capitolo, invece, ho ricostruito l’opera di monumentalizzazione e di celebrazione che si sviluppa tra gli anni 70 e gli anni 90. Nel terzo capitolo ho analizzato il modo in cui la ricorrenza è diventata parte dello scontro tra stato e chiesa. La commemorazione del 10 giugno, infatti, come accadde anche per la celebrata data del 20 settembre (Presa di Porta Pia), fu occasione di un acceso dibattito: sia la prima amministrazione integralmente cattolica a Vicenza nel 1896, sia i socialisti, sentirono la necessità di onorare i “fasti” del 1848 locale, ma attribuendo a quegli eventi un significato diverso. Nell’ultimo capitolo esamino, infine, le celebrazioni del 1898, il 50° anniversario dei moti della Prima Guerra d’Indipendenza. Al contrario che in altre realtà italiane (ad es. Milano), e nonostante la crisi economica colpisse anche Vicenza, nella città berica le celebrazioni – che durarono ben tre giorni – non divennero occasione di scontro politico.
















Cap. 1
LA “MAESTOSA” VISITA DI VITTORIO EMANUELE II ED IL CONFERIMENTO DELLA MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE
1.1 – L’ANTEFATTO. IL VENETO E VICENZA DOPO IL 1848
All’indomani della resa agli austriaci in data 11 giugno 1848, la caduta della città di Vicenza provocò come conseguenza la capitolazione anche di Padova e di Treviso. Successivamente tutte le città del Veneto ebbero la stessa sorte. Dopo la metà di giugno, infatti, gli unici centri di resistenza italiana in Veneto erano rappresentati, oltre che da Venezia, dalle fortezze friulane di Palmanova e di Osoppo. Proprio quest’ultima fortezza capitolò soltanto nel mese di ottobre del 1848 .  L’esperienza della Repubblica Veneta ebbe invece termine, con la resa della città lagunare, nell’agosto del 1849, vinta, dopo una strenua resistenza, dalla fame e dalle malattie sopravvenute. Prima della sua caduta, Venezia si vide rinforzata di molti volontari sopraggiunti dai diversi contesti già di fatto arresi.
Tra gli obiettivi degli austriaci al loro ritorno, vi fu quello di far dimenticare le pesanti carenze politiche che avevano portato all’emergere dei vari moti del 1848.  Praticamente, gli austriaci desideravano ottenere il consenso attraverso una serie di riforme nell’ambito socio-economico, tali da attirare a sé il consenso delle classi meno abbienti, viste ai loro occhi come coloro che non avevano ben compreso i fini della “primavera dei popoli”. Per esempio il governo austriaco attuò la diminuzione del prezzo del sale destinato sia al bestiame che all’alimentazione umana, oltre a rinunciare alla esazione degli arretrati di diverse tasse minori . Questa linea intrapresa dagli austriaci si manifestò anche nel contesto giudiziario, nel senso che si raccomandavano umanità e clemenza nei confronti degli inquisiti e dei sovversivi. Artefici di queste iniziative furono l’imperatore Ferdinando e il suo ministro plenipotenziario e commissario straordinario per il reggimento civile del Regno Lombardo-Veneto, Montecuccoli. Già alla fine del 1848 però, il precipitare della situazione ed il riacutizzarsi degli eventi a Vienna, che portarono all’uccisione del ministro della Guerra LaTour, affiancati dalla contemporanea rivolta in Ungheria, diedero man forte agli stessi militari che fecero pressione al nuovo imperatore Francesco Giuseppe perché venisse attuata una severa linea contro gli antagonisti ed i sovversivi. Da quel periodo di fatto vennero incrementati i processi e le condanne. La nuova forma che il sistema austriaco rivestiva era quella del neoassolutismo, intento a soffocare categoricamente il movimento nazionale che in modo latente serpeggiava nel regno. Allo stesso tempo, però, la linea improntata dall’Austria era quella di farsi artefice di una moderna amministrazione e di libertà economiche, le quali nascondevano invece un allontanamento dei cittadini dalla partecipazione politica del paese . Nella seconda metà degli anni ’50, contemporaneamente alla messa a riposo dell’ormai novantenne feldmaresciallo Radetzky, che deteneva dal 1848 il grado di governatore generale militare e civile del Lombardo-Veneto e che aveva ricondotto all’ordine le province ribelli, venne ad instaurarsi un clima meno oppressivo. In quel contesto si cercò quindi di accrescere il margine di autonomia finanziaria, come nel caso degli organi di autogoverno comunale.  Il ruolo che fino a quel momento spettava a Radetzky, infatti, fu di fatto rivestito dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo. Il sempre però fragile e precario equilibrio tra autogoverno locale e direzione esterna viennese, sul quale si era retta la lunga stagione dal 1816 al 1848, si era dissolto dato che gli stessi sudditi non riponevano su di esso durevoli aspettative . Con il sopraggiungere del 1859, la prospettiva della campagna di guerra contro l’Austria e della conseguente alleanza franco-piemontese, fece sì che molti patrioti veneti lasciarono la regione per espatriare ed arruolarsi nei reggimenti di volontari che andavano a costituirsi in Piemonte . Gli stessi comitati clandestino-patriottici inoltre ripresero vigore. Molti di fatto furono i volontari della terra veneta che espatriarono verso il Piemonte, ma che videro poi, di conseguenza, sequestrati i loro beni dalle stesse autorità austriache, come prevedeva la legge vigente allora. Tuttavia, la rapida ed inaspettata conclusione della campagna di guerra, conclusasi con l’armistizio di Villafranca, che vedrà in seguito ad esso l’annessione della Lombardia ma non del Veneto al Regno di Sardegna, vide molti di questi volontari e patrioti abbandonati a loro stessi, congedati dall’esercito sardo e costretti a vivere lontani dalle proprie case per lungo tempo. Queste figure si dovettero accontentare di miseri sussidi o tutt’al più di piccoli impieghi statali . Le aspirazioni  di questi patrioti, che da anni lottavano  fedeli ai propri ideali e che in esilio sopportavano le sofferenze di una vita precaria e difficile, si videro ancora una volta sacrificati “alle esigenze di cupidigie dinastiche e di interessi sociali, mascherati da superiori convenienze di ordine e di equilibrio europeo ”.
Dopo il 1848 Radetzky aveva assicurato di voler trattare con benevolenza i cittadini vicentini coinvolti nell’insurrezione,  compresi quelli che si erano allontanati la mattina dell’11 giugno, al seguito delle truppe pontificie . Tra  questi  primi esuli, ritroviamo, per esempio, alcuni membri del comitato dipartimentale di Vicenza, come Tecchio e Bonollo . Coloro che erano rimasti, invece, risultavano di fatto soggetti, come accadeva d’altronde nelle altre parti del regno, a controlli da parte delle autorità austriache .
L’opposizione al governo austriaco si manifestava pubblicamente durante gli spettacoli teatrali, come avvenne il 5 gennaio 1857, in occasione della visita in città dell’imperatore Francesco Giuseppe invitato ad assistere ad uno spettacolo al Teatro Eretenio  appositamente organizzato per lui. Nel teatro veniva eseguita l’opera “Lombardi alla prima crociata” di Giuseppe Verdi. Nel momento in cui il coro intonava “O Signore dal tetto natio…”, esplose un interminabile applauso, seguito da richieste di bis. In quegli istanti veniva notata una forte agitazione nel palco dell’imperatore .
Per evitare il ripetersi di queste situazioni, le autorità austriache censurarono le proposte di rappresentazioni dell’Accademia del Teatro Olimpico che potessero evocare un sentimento nazionale. Però, gli austriaci acconsentirono alla rappresentazione dell’ ”Oreste” , quando gli accademici chiamarono un giovane attore , con inclinazioni patriottiche, quale protagonista. Durante lo spettacolo si sentì addirittura echeggiare un provocante grido di “Viva l’Italia! ” .
Dopo il 1848 fu insignito nuovamente della carica di podestà , Gaetano Costantini , uno dei più convinti assertori della causa italiana e stimato da tutti per la sua dirittura morale. Anche il regio delegato austriaco ammise l’influenza e l’ascendente che il podestà Costantini aveva sui propri concittadini . La riconferma del Costantini era peraltro in linea con l’iniziativa dell’imperatore Ferdinando  il quale aveva dichiarato “pieno perdono” a tutti gli abitanti del Lombardo-Veneto, che avevano partecipato agli avvenimenti politici del 1848. Costantini riuscì a ricollocare al loro posto i professori del ginnasio, inizialmente destituiti dall’autorità austriaca. Il podestà   intervenne anche per limitare i rigori polizieschi austriaci. Il 10 giugno 1850, in una delle rare celebrazioni funebri in suffragio di un giovane vicentino  caduto il 10 giugno 1848, furono operati numerosi arresti. Era nel cimitero civico, quando il cappellano venne fatto allontanare dal posto su ordine del feldmaresciallo, tramite un comunicato del vescovo Cappellari  al Municipio, dal quale il cappellano effettivamente dipendeva . Il cappellano aveva disobbedito agli ordini austriaci di non commemorare i caduti vicentini del 1848. Il Municipio presentò una petizione per avere un atto di clemenza dei cittadini arrestati e condannati; il governo austriaco accolse la richiesta del municipio e concesse la grazia. Comunque all’inizio del 1851, la polizia arrestò alcuni componenti dei Comitati mazziniani, come Giuseppe Bacco .
Nel 1857 la visita della coppia imperiale divenne l’occasione perché si manifestasse la disaffezione anche dei nobili verso la causa d’Austria: i nobili, infatti, invitati alle manifestazioni programmate, disertarono in massa gli omaggi all’imperatore, a riprova che, nell’ultimo decennio di dominazione austriaca, nel contesto veneto e quindi anche vicentino, era avvenuta una progressiva disaffezione di quella stessa nobiltà cittadina che aveva mantenuto un atteggiamento moderato ed in sostanza obbediente nei confronti delle autorità austriache . Da parte austriaca vi furono tentativi di riconquistare il consenso perduto: lo stesso imperatore Francesco Giuseppe intraprese iniziative benefiche nei confronti della città di Vicenza, togliendo le limitazioni di accesso e di movimento per i cittadini sul Monte Berico, fino allora considerato zona militare fortificata, e lasciò la somma di tremila lire austriache a favore dei bisognosi di Vicenza. Durante gli ultimi anni della dominazione austriaca, si manifestò, anche a Vicenza, l’adozione di una certa linea morbida con una serie di riforme e di concessioni di più larghe autonomie . Nello stesso tempo però non cessavano le manifestazioni filo patriottiche, “smerciando e facendo uso di saponi tricolori, fiammiferi chiusi in astucci pure tricolori, penne Caprera, ricorrendo a fuochi di bengala tricolori in ogni solennità o ricorrenza patriottica, dipingendo sui muri fasce tricolori. Il tricolore per l’Austria era veramente tabù” . Circolavano fogli clandestini dalle tipografie locali che informavano i vicentini su tutto ciò che avveniva oltre il confine, accrescendo la loro partecipazione ed il loro interesse alla vita politica italiana. Di conseguenza venivano adottate severe misure di polizia. Da un elenco della polizia austriaca, trasmesso a Venezia il 24 luglio 1861, si registrano tra il 1860 e il primo semestre 1861 settantatré vicentini ritenuti sospetti e quindi sottoposti ad una attenta sorveglianza . Vennero effettuate molte perquisizioni domiciliari come quella subita da Colomba Calvi Tron, la quale venne arrestata il 21 giugno 1860, senza dimenticare anche altri numerosi arresti tra i quali quello del canonico Fogazzaro  e di alcuni assessori municipali. Tra i vari nobili che furono oggetto di indagini, vi fu Alessandro Capra  che fu accusato dalla polizia di far propaganda affinché il consiglio comunale non si radunasse. Nei primi mesi del 1861 le autorità austriache multarono e chiusero d’autorità alcune delle botteghe di Vicenza che avevano aderito a dimostrazioni di gioia per la riapertura del Parlamento a Torino e per la proclamazione di Vittorio Emanuele a re d’Italia. Fu arrestato inoltre un negoziante perché i suoi commessi portavano berretti alla Garibaldi. A marzo dello stesso anno vennero chiamati al commissariato anche sacrestani e parroci a causa delle loro omelie patriottiche durante le prediche e redarguiti per aver suonato a festa le campane in occasione della nascita del Regno d’Italia. Anche il vescovo di Vicenza, Farina , sebbene ritenuto  filoaustriaco, fu oggetto di ammonimento dalle autorità austriache perché furono rinvenute bandiere tricolori nei suoi orti .
Nel 1860 e nel 1862, le convocazioni del consiglio comunale, come accadde anche in alcuni altri casi, come per esempio nella città di Udine, andarono tutte deserte. Il Comitato veneto aveva diffuso un assoluto divieto di cooperazione con gli austriaci . Nonostante ciò  nel 1863 si ebbe la nomina a podestà di Lelio Bonin Longare , invitato dallo stesso comitato veneto ad accettare la carica per tutelare gli interessi materiali dei cittadini.
Nel  1866, “il progressivo deterioramento delle relazioni politiche tra Austria e Prussia che mirava ad estromettere gli Asburgo dalla Confederazione germanica”  venne visto dal nuovo Regno d’Italia come l’occasione propizia per completare l’unificazione della penisola. Nonostante le sconfitte militari, la guerra del 1866 portò alla cessione del Veneto (compresa Mantova e parte del Friuli) al Regno d’Italia, che venne poi confermata ufficialmente mediante il plebiscito dell’ ottobre 1866 .
A Vicenza e provincia già ai primi di luglio del 1866 erano rimaste al loro posto soltanto le autorità civili. La fine del dominio austriaco in città si ebbe nella notte tra il 12 e il 13 luglio del 1866. Durante quella notte infatti l’allora Delegato Ceschi  insieme a Beltrame, commissario di polizia, lasciavano la città dalla stazione per dirigersi a Verona, insieme ad altre figure che avevano o dimostravano tendenze filoaustriache. “Dopo mezzo secolo di aborrita dominazione, l’austriaco governo tra i fischi del popolo accorso festante alla stazione della ferrovia in Campo Marzio a vederne la furtiva ritirata dei supremi ufficiali civili, la cittadinanza vicentina aveva subitamente a trovarsi come abbandonata a se stessa, nell’assoluta mancanza d’ogni forza, e d’ogni provvedimento a tutela dell’ordine pubblico” .  La mattina del 13 un gruppo di giovani, come si era verificato nel 1848, cominciò a dare la caccia alle aquile bicipiti degli uffici, delle caserme etc., gettandole poi nel fiume Bacchiglione. Il gruppo quindi si riversava al Vescovado, dove tolse lo stemma del vescovo Farina, sfondando il portone, invadendo l’atrio e lo scalone. Il vescovo Farina attese questi individui con la bandiera italiana in mano, pur essendo stato sempre fedele alle imperatrici d’Austria che avevano aiutato l’istituto di carità da lui stesso fondato .
La tutela dell’ordine pubblico venne allora assunta dal Municipio. Si costituiva quindi una guardia cittadina organizzata e diretta dal nobile Fabrizio Franco . In quei giorni, l’esercito italiano pose anche sotto sequestro tutto il materiale di proprietà austriaca esistente nei magazzini militari della città, consistente tra molti altri oggetti, di “13.000 letti in ferro, 17.000 coperte e 50.000 lenzuola, oltre a 4.000 pani distribuiti ai poveri” . Costantini fu designato come membro della Giunta provvisoria e ne assunse la presidenza, a seguito della rinuncia del facenti funzioni di Podestà del nobile Angelo Revese, relatore della cessata Congregazione Provinciale. La Giunta Municipale Provvisoria , rimase in carica fino a settembre del 1866 e fu costituita con il vecchio sistema di votazione, cioè con “la sovrana patente 7 aprile 1815” . Il primo Commissario del re a Vicenza che ebbe il compito di assumere  il ruolo di organizzatore e di ausilio alla giunta municipale, fu Antonio Mordini . Mordini fu responsabile per esempio della destituzione di molti impiegati che avevano prestato servizio sotto le autorità austriache. Quest’ultimi furono costretti così ad espatriare verso i territori austriaci. Il commissario doveva preparare anche il plebiscito popolare previsto per sancire l’annessione. Nel frattempo ordinò nuove elezioni dei consiglieri nella nostra Provincia, tra il 23 e 30 settembre. Seguirono quindi alla fine di settembre 1866 le prime elezioni per la ricostituzione del Consiglio comunale dove venne riconfermato Costantini. Il plebiscito del Veneto fu indetto nei giorni 21 e 22 ottobre per esprimere a voto segreto, la volontà dei cittadini sull’unione al Regno d’Italia sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori. Furono chiamati a votare coloro che avevano compiuto ventun’ anni e che non avevano subìto condanne per crimini, furti o truffe; “anche quelli adunque che non sanno leggere e scrivere; quelli che occupati tutto il giorno a guadagnare il vitto per sé e per la famiglia nelle fucine e sopra i campi non possono attendere alle cose politiche quanto pei loro diritti sarebbe richiesto” . L’esito del plebiscito di tutta la provincia di Vicenza fu di 85.869 SI e 5 NO oltre a 52 voti nulli . Solo un elettore su quattro aveva votato; un numero limitato forse a causa dell’emigrazione degli anni precedenti e per l’assenza degli ex soldati al servizio austriaco.
1.2–  I PREPARATIVI PER L’ARRIVO DEL RE E LA BANDIERA DI VICENZA
All’indomani del 1866 la monarchia cercò di sollecitare con la sua presenza fisica nelle nuove province del regno “l’instaurazione di un sentimento nazionale in Italia” ;  numerosi viaggi dovevano mostrare al popolo il sovrano come simbolo e personificazione della nuova nazione. Anche a Vicenza, la visita del re Vittorio Emanuele II venne effettuata con quel preciso intento. Con Circolare 11 novembre 1866 veniva annunciato dal Regio Commissario alla Civica Rappresentanza di Vicenza che Vittorio Emanuele II, partendo alle 2 del pomeriggio del 17 novembre da Padova, si sarebbe recato a Vicenza dove avrebbe pernottato, ripartendo poi il giorno successivo alle ore 11 per Verona. Il Regio Commissario chiedeva a tutti i comuni del Distretto di Vicenza di inviare distaccamenti delle loro Guardie Nazionali provvisorie presso Campo Marzio per le ore 9 del 18 novembre per presenziare al passaggio del Re e per accompagnarlo alla sua partenza. Il Municipio pubblicava, a nome del Podestà Gaetano Costantini, con avviso del 12 novembre, l’intero programma delle feste per l’accoglienza del Re. Il tragitto, che avrebbe percorso Vittorio Emanuele II ed il suo relativo seguito, partendo dalla stazione ferroviaria sino al Teatro Olimpico, sarebbe stato parato a festa a cura del Municipio e i cittadini stessi venivano invitati ad abbellire le finestre delle loro case con addobbi. In questo avviso municipale si sottolineava la deliberazione del Consiglio Comunale in cui veniva definita una erogazione di 20.000 lire, destinate, in parte all’erezione di un monumento sul Monte Berico per onorare i morti che erano caduti per l’Italia, in parte in sussidi ai mutilati, reduci e alle famiglie dei caduti del Comune di Vicenza durante le guerre nazionali. Nello stesso avviso era prevista una spesa per un altro monumento nazionale in memoria dei morti della cannoniera corazzata “Palestro”, quest’ultima affondata nelle acque di Lissa. La Congregazione di Carità avrebbe distribuito ai bisognosi del comune ulteriori 4.000 lire. In onore della visita di Vittorio Emanuele veniva stabilita la costruzione di un acquedotto che avrebbe portato le acque di Povolaro e Dueville a beneficio della stessa città di Vicenza e che si sarebbe chiamato, in onore del Re, “Acqua Vittoria”. Nell’avviso affisso veniva rimandato ad un’altra comunicazione pubblica, il programma della successiva domenica 18 novembre in cui la città di Vicenza avrebbe ricevuto la medaglia d’oro al valor militare e si sarebbe inaugurata una lapide alla base della Torre di Piazza Maggiore, l’attuale Piazza dei Signori, in ricordo dei cittadini vicentini morti nelle guerre di indipendenza  . Per dare ancora più solennità all’evento del 18 novembre, venivano invitati i combattenti vicentini del 1848. Quest’ultimi, una volta comprovata la loro effettiva partecipazione ai fatti d’armi in Vicenza nel 1848, tramite precisi documenti e/o asserzioni di testimoni, venivano esortati a raccogliersi alle ore 7 della domenica 18 novembre nella Loggia verso la Piazza della Basilica. La bandiera del comune sarebbe stata, in quell’occasione, portata dal Palazzo di Città al luogo prestabilito della cerimonia, e, allo stesso modo, nel ritorno da un veterano del 1848, scelto dai suoi stessi commilitoni. Spettava invece al Podestà Costantini tenere la bandiera nell’atto della sua decorazione .
Il 5 novembre 1866, il Consiglio Comunale di Vicenza, in Sessione Straordinaria, sotto la Presidenza del nobile Francesco Stecchini, avente come unico oggetto la discussione di quale sarebbe stata la bandiera insignita della medaglia d’oro al valor militare da presentare al Sovrano, relazionava sull’udienza del 19 ottobre 1866 concessa dal Re Vittorio Emanuele II al Ministro della Guerra, Tenente Generale Efisio Cugia, in cui lo stesso Ministro proponeva la medaglia succitata. Cugia, nell’udienza, ricordava il decreto regio del 13 luglio 1849, in cui il Re aveva decorato alcuni italiani dello Stato Sardo per la strenua difesa di Vicenza durante i mesi di maggio e giugno 1848. Veniva citata anche la seduta del 16 agosto 1849 della Camera dei Deputati, durante la quale veniva esternata la stessa volontà di insignire la bandiera di Vicenza. Ritornando alla delibera in oggetto, è interessante soffermarsi sulla premessa stilata dalla Commissione che era stata nominata dalla Giunta municipale per fare indagini e presentare quindi una proposta sul tipo di vessillo che poteva essere fregiato di una medaglia d’oro al valore militare. La commissione apposita era composta da cinque esperti, particolarmente conoscitori della storia della città: il canonico Pietro Marasca, custode di documenti e memorie patrie, l’abate Andrea Capparozzo, Direttore della Biblioteca Civica, il canonico Lodovico Gonzati, bibliofilo e studioso, Stefano Dalla Vecchia, Consigliere Comunale e Nicolò Scaramuzza, insegnante di storia .  Essi rammentarono che la bandiera di Vicenza aveva sventolato nelle prime battaglie degli italiani contro l’impero ed ebbe la fortuna di intrecciarsi con la bandiera di Casa Savoia nella famosa giornata di Legnano, e che questo stendardo veniva rappresentato anche nelle illustrazioni dei protettori della città, i Santi Felice e Fortunato, con lo scudo municipale sul loro petto, consistente in una croce bianca in campo rosso. La Commissione riteneva quindi di utilizzare l’antica bandiera con il campo rosso e croce d’argento, sostenuta da un’asta tricolore e fregiata della cosiddetta sciarpa reale di casa Savoia. Dopo la lettura di questa relazione, iniziò il dibattito in Consiglio Comunale dove emersero varie proposte che partivano dal fatto che da svariati secoli non esisteva più a Vicenza una bandiera che rappresentasse la città. Il Consigliere Verona esaltava lo stendardo tricolore del 1848 che sventolava sulla torre cittadina. Il Consigliere Dalla Vecchia volle ricordare il valore di tutti i militi vicentini e di molti altri, non escluse le donne, che con coraggio si erano adoperate per la difesa della città.  Secondo il suo parere, la bandiera da adottarsi era quella della già citata battaglia di Legnano. Fedele Lampertico invece rammentava come Giampaolo Bonollo , Presidente del Comitato del 1848,  prima di lasciare Vicenza a seguito della “sventurata ma non ingloriosa” giornata del 10 Giugno 1848, aveva raccolto e nascosto la bandiera tricolore per evitare che cadesse in mano austriaca. Anche se non sapeva dove fosse seppellita, Lampertico propose quindi che la bandiera da decorarsi fosse il tricolore, cioè quella che rappresentava il vessillo dell’unità e indipendenza italiana.  Il Cavaliere Lioy si associò alle idee espresse da Lampertico e concludeva pertanto che la bandiera da adottarsi dovesse essere il tricolore ommettendo sia lo scudo che la sciarpa. Alla fine, si decise di adottare – con 15 voti favorevoli e 7 contrari -  la bandiera tricolore nazionale italiana con lo scudo  di casa Savoia nel centro e con la sciarpa dei  colori comunali . Questa fu dunque la bandiera prescelta e che sarebbe rimasta inalterata, a parte alcune modifiche avvenute dopo la prima guerra mondiale, fino al 1948 .
1.3 -  LA VISITA DI VITTORIO EMANUELE II
Il 17 novembre 1866 tutta la cittadinanza di Vicenza si riversava in Campo Marzio ad incontrare il Sovrano, considerato il liberatore d’Italia. A ricevere Vittorio Emanuele II si raccoglievano alla Stazione ferroviaria, tra gli altri, il Monsignor Vescovo Diocesano, la Congregazione Provinciale, il Municipio con il Comando della Guardia Nazionale Provvisoria e le Regie autorità militari. Verso le 3 del pomeriggio le campane della città suonavano a festa per annunciare l’imminente arrivo del convoglio reale di Vittorio Emanuele ed un colpo di cannone segnalò la sua effettiva presenza in città. Vittorio Emanuele II giungeva accompagnato dai Reali Principi Umberto ed Amedeo, e dal Principe Eugenio di Savoia-Carignano, con un numeroso seguito di funzionari e graduati. La parata si staccava dalla stazione, raggiungendo l’Arco di Campo Marzio, detto Arco del Revese , che era stato restaurato nel 1838 dall’architetto Bartolomeo Malacarne e dove, sempre nel 1866, per “celebrare la fine del dominio austriaco di altra infausta memoria” , era stata collocata una lapide con l’iscrizione dettata da Jacopo Cabianca in onore di Vittorio Emanuele . Il corteo proseguiva per Porta Castello e attraversava il corso Principe Umberto , intitolato così con deliberazione municipale il 29 luglio 1866 per rendere omaggio al principe Sabaudo . Il Sovrano raggiunse quindi Piazza dell’Isola . Arrivando al Palazzo del Museo Civico (Palazzo Chiericati), il Re trovò la piazza gremita da moltissime persone che sventolavano tricolori. Fiori cadevano dalle finestre delle abitazioni sulla carrozza reale, tra un nugolo di applausi, di musiche e di evviva. Il cocchio reale si faceva largo a stento tra l’immensa folla, seguita da una lunga fila di altre carrozze e molti cittadini a piedi: “smontato in Piazza d’Isola, accolte graziosamente colle proprie mani varie suppliche  portegli nel passaggio, il Re salì al Museo, e dopo aver esaminate le opere d’arte in esso raccolte, attorniato dai Principi Reali Umberto ed Amedeo, assistette dalla Loggia del Palazzo allo sfilare della Guardia Nazionale del 70° di linea e del reggimento Cavalleggeri di Lodi” . Questi precisi istanti sono stati immortalati attraverso la realizzazione del quadro dal titolo “Re Vittorio Emanuele II si mostra al popolo di Vicenza dal prospetto del Civico Museo”  che la pittrice Orsola Faccioli  realizzò nel 1869 . Dal Museo Civico, Vittorio Emanuele II, si recò in altri punti della città . Poi venne condotto al Palazzo Loschi , dove gli fu assegnato il suo alloggio, destinatogli dal Municipio. Nella sala principale di questo Palazzo veniva imbandito, per le ore 6 pomeridiane, un banchetto al quale vennero invitati a prenderne parte, oltre le Autorità civiche, provinciali e militari, anche il Mons. Vescovo Farina, ed altri benemeriti cittadini. Mentre a palazzo Loschi si banchettava, si svolgeva in Campo Marzio uno spettacolo popolare di fuochi d’artificio e così, in Piazza Maggiore , la basilica palladiana veniva illuminata al fuoco dei bengala. La piazza fu predisposta in modo che si potesse ammirare una luminaria opera di Giacinto Ottino  rinomato artista lattoniere. La sera il sovrano entrava nel Teatro Olimpico, sfarzosamente illuminato dove era radunata l’élite cittadina. Appena Vittorio Emanuele II entrò a Teatro “tutti s’alzarono agitando candidi lini, e per qualche minuto il vasto recinto rimbombò d’entusiastici Viva il Re” . Un’orchestra di 82 suonatori, collocati sulle due prime gradinate del Teatro e 62 coristi raffiguranti i Crociati Vicentini  del 1848, eseguiva una “Cantata”  intitolata “La bandiera vicentina” , con testo tratto da una poesia dell’Assessore Municipale Emilio Boschetti e con musica del Maestro Giuseppe Apolloni , atta ad onorare la medaglia insignita alla Bandiera di Vicenza . Fu poi suonata la sinfonia della Muta di Portici del compositore francese Daniel Auber, che era stata rappresentata la prima volta nel 1828. Quindi si aprivano le danze, alle quali prendevano parte anche i principi reali. Vittorio Emanuele II indugiò per due ore al Teatro Olimpico, per poi dirigersi per il pernottamento a Palazzo Loschi.
Nella mattina di domenica 18 novembre il commissario regio presentava tutte le Autorità cittadine e provinciali, a Vittorio Emanuele II, nella Sala Bernarda del Palazzo Prefettizio, detta Loggia del Capitanio . Il Re si spostò, quindi, nella Piazza Maggiore per la decorazione della Bandiera del Comune. Le truppe reali e la Guardia Nazionale cittadina, e quella di Montegalda, Montegaldella e Camisano, seguivano la bandiera del Comune, portata dal Colonnello in pensione Giacomo Zanellato , veterano dell’Armata del Regno Italico e della guerra nazionale del 1848, accompagnato da Sebastiano Tecchio, futuro Senatore del Regno e Presidente del Regio Tribunale d’appello in Venezia, da Bartolommeo Verona e da altri membri del Comitato Provinciale di Vicenza del 1848, nonché da un lungo seguito di ben 450 cittadini di ogni ceto sociale, combattenti delle patrie battaglie del 1848.
        1.4 – L’ INAUGURAZIONE DELLA LAPIDE COMMEMORATIVA
Il 13 ottobre 1866, durante la Sessione Straordinaria del Consiglio Comunale, il consigliere comunale  Stefano Dalla Vecchia propose di “ murare una lapide a ricordo dei martiri della Patria”,   da collocare nel lato di tramontana della torre pubblica, sita nell’attuale Piazza dei Signori, dove era già presente una sorta di altare. Secondo il consigliere, la realizzazione di questa lapide sarebbe stata fondamentale per mantenere vivo il ricordo dei “Martiri nostri che morirono col santo nome d’Italia in sul labbro”. La proposta di Dalla Vecchia venne approvata tra applausi generali .  In seguito, con avviso pubblico, 28 ottobre 1866, si sollecitarono i parenti o i conoscenti dei morti vicentini durante le guerre per l’indipendenza italiana a indicare i nominativi da apporre sulla lapide. Il 18 novembre 1866 alla presenza del re venne inaugurata la lapide, in forma ancora provvisoria, dato che non ci fu il tempo necessario per collocare quella stabile marmorea. Sulla lapide si leggevano i nomi di 27 martiri, ricordati con una epigrafe. In seguito vennero aggiunti altri sette nominativi, designati dietro voto espresso da una apposita Commissione, delegata proprio all’esame dei titoli. Nella medaglia d’oro  al valor militare, conferita da Vittorio Emanuele II e apposta sulla bandiera si potevano leggere le seguenti parole: GUERRA DELL’INDIPENDENZA D’ITALIA – MDCCCXLVIII – XX, XXI, XXIII MAGGIO E X GIUGNO – GLORIOSA DIFESA DELLA CITTÀ E DEL MONTE BERICO – CITTADINI DI VICENZA .  All’atto solenne scoppiavano fragorosi applausi e suoni delle bande musicali. Il podestà Costantini presentava al Re anche l’anziano Domenico Baccellieri, che oltre ad aver partecipato alla campagna militare del 1848-49 nel ruolo di maggiore era “un  glorioso avanzo delle guerre di Spagna e di Russia, il quale abbandonato il letto, reggentesi sulle gruccie, venne trasportato sulla Piazza sulle braccia dei cittadini”   . Alle ore 11, il re s’avviò alla Stazione per muovere verso Verona. Le ovazioni dell’arrivo si rinnovarono alla sua partenza. Molti ed incessanti furono gli applausi che il popolo riunito in Campo Marzio mandò al Re . Prima della sua partenza, Vittorio Emanuele si compiaceva per l’accoglienza ricevuta dalla Città di Vicenza “Sia lode al Municipio per l’aver bene provveduto a quanto occorreva e per aver preveduto ed impedito per quanto era in lui che in tale circostanza non avvenissero inconvenienti”  . Il Sovrano era soltanto rammaricato per il fatto che gli fosse mancato il tempo per visitare Monte Berico, ma rassicurò che lo avrebbe fatto in una prossima occasione.  Partendo, il re elargiva alcuni lasciti. Infatti, oltre alla somma di 20.000 lire da distribuirsi tra i popolani più poveri e meritevoli, già deliberata dal Consiglio nell’agosto 1866 assieme alle 4.000 lire da distribuirsi a mezzo della Congregazione di Carità ai più meritevoli bisognosi del Comune, venne appunto pubblicata, sul giornale locale «Giornale di Vicenza - Periodico Politico della Città e Provincia» in data 24 novembre, la serie degli atti di generosità da parte del sovrano in occasione del suo passaggio in città. Tra gli altri ritroviamo 4000 lire destinate per un monumento ai morti nell’anno 1848; la destinazione di un anello in brillanti “recante la cifra del suo nome, alla contessa Scroffa e alla signora Colomba Calvi” che avevano subìto il carcere per cause politiche. Vennero inoltre date 6000 lire a Domenico Peterlin  per la realizzazione di un quadro . Nell’olio su tela che quest’ultimo avrebbe dipinto, sono rappresentate le figure più significative del risorgimento vicentino, le quali, nell’occasione della visita del Re, rendevano omaggio all’ospite davanti alla lapide ai caduti in piazza Maggiore, ai piedi della torre cittadina. Tra le figure che possiamo scorgere nell’opera e che riconosciamo, oltre al Re posto al centro del quadro, ritroviamo: il Podestà Gaetano Costantini, il Commissario del Re Antonio Mordini, lo scrittore e scienziato Paolo Lioy, lo statista ed economista vicentino Fedele Lampertico, il letterato e poeta Jacopo Cabianca, l’abate letterato Giacomo Zanella, don Giuseppe Fogazzaro, zio del più noto scrittore Antonio Fogazzaro, Giacomo Zanellato, la contessa Drusilla Dal Verme Loschi , ed altri artisti come il musicista Giuseppe Apolloni e l’architetto Antonio Caregaro Negrin, futuro Presidente dell’Associazione dei Veterani Vicentini del 1848-49. Nello sfondo dell’opera vediamo il popolo esultante che saluta dalla stessa piazza e dalle case vicine, sventolando drappi e bandiere bianchi, rossi e verdi. Per l’intero ricevimento del Re vennero spese complessivamente 95.080 lire comprensive 12.666 lire derivanti dall’allestimento della Villa Carcano a Monte Berico, dall’addobbo dell’ Arco di Campo Marzio e dalla implementazione della illuminazione straordinaria di Campo Marzio iniziata nell’estate del 1866 .  60.627 lire furono a carico della Provincia ed il resto a carico del Comune.
La visita di Vittorio Emanuele II con la concessione della medaglia d’oro al valor militare alla bandiera di Vicenza definiva il ruolo della città nel periodo risorgimentale, legandola alla vicenda quarantottesca. La stessa città di Vicenza cercava, in qualche modo, una legittimazione dell’avvenuta unità politica, che era stata tutt’altro che vittoriosa nel 1866, cercando invece nel 1848, anche se sconfitto e non sabaudo, un punto di riferimento eroico per raggiungere l’agognata unificazione.







Cap. 2
LA “MONUMENTALIZZAZIONE” DEL 1848
LA PRIMA COMMEMORAZIONE 1867 E L’INAUGURAZIONE NEL 1871 DEL MONUMENTO AI CADUTI
2.1 – L’OSSARIO DEGLI AUSTRIACI
Nell’assedio di Vicenza, il 10 giugno 1848, erano morte anche alcune centinaia di soldati austriaci. Sin dal 1850 il Corpo dei Signori Ufficiali del Reggimento Gran Principe Costantino  aveva chiesto, di poter realizzare su di un lato della basilica di Monte Berico un monumento “in durevole ricordanza dei guerrieri «austriaci» ivi caduti”.  Le trattative intorno alla costruzione del monumento si dilungarono fino alla decisione del 26 marzo 1857, da parte dell’imperatore “di approvare che gli avanzi dei guerrieri caduti nel 1848 sul Monte Berico, i quali si trovano in sepolture qua e là sparse senza alcun monumento, siano raccolte e, colle solennità ecclesiastiche, sepolti avanti il portale della Chiesa, e posti sotto la protezione dei Reverendi Padri del Convento” . L’ accordo venne sottoscritto, tra gli altri, da rappresentanti graduati militari come il Comandante la Guarnigione Maggiore Edoardo Netzer nobile de Sillthal, dal Cappellano di Guarnigione, da ecclesiastici come il Priore del Convento dei Padri Serviti Don Giannangelo Magnaghi, quale delegato del Vescovo di Vicenza, dal Podestà della città, conte Gaetano Valmarana , nonché dall’Assessore municipale nobile Antonio Piovene e da un delegato del regio Medico Provinciale. Si decise quindi che i resti dei caduti austriaci trovassero collocazione provvisoria in bare presso le stanze offerte dal Convento fino alla solenne sepoltura, che avrebbe avuto luogo nella sede dove era già stata collocata una colonnina-monumento che ricordava l’impegno del reggimento Reisinger. Gli scavi occorrenti allo scopo risultavano di facile esecuzione proprio in quel luogo. Il Municipio e il Priore del Convento dichiaravano di cedere senza alcun indennizzo quello spazio di terra del piazzale a Monte Berico. Tutte le spese sarebbero state a carico delle Autorità Militari. La sepoltura sarebbe stata celebrata attraverso una solenne Messa dal Priore. La realizzazione del monumento, come lo conosciamo oggi, non fu così immediata. Lo testimonia una lettera, datata 31 gennaio 1861, sottoscritta dal Direttore del Regio Genio, nella quale si intimava alla Congregazione Municipale di Vicenza di “non frapporre impedimento alcuno all’erezione sollecita del Monumento”, facendo riferimento all’invito del Comando Generale in Udine, adottato con ordinanza del 27 gennaio 1861 .
Non è chiaro quando il monumento fu alla fine completato. L’avvocato e storico Vittorio Meneghello (1861-1905) colloca l’evento nel 1861 come del resto riportato da una cronistoria relativa al Santuario di Monte Berico. La medesima cronistoria annotava che il 17 luglio 1857 vennero sepolti, in un monumento provvisorio, i resti dei caduti austriaci con un rito religioso come previsto dagli accordi. Inoltre la cronistoria, alla data del 21 marzo 1861, riportava la celebrazione di una messa funebre da parte del Vescovo Farina con successiva benedizione al monumento attuale . Kozlovic indica, invece, nell’ultima visita dell’imperatore Francesco Giuseppe al Lombardo-Veneto, nel 1862, il momento dell’inaugurazione .
Dopo l’annessione vi furono vari tentativi di demolire il monumento. Il monumento-ossario rappresenta un cippo a guglia in pietra dove sono incise in latino parole attestanti la sua funzione ad ossario austriaco.  La Giunta municipale, in data 29 luglio 1866 faceva sapere al Commissario Regio Mordini, che l’opera veniva ritenuta un’offesa alla città di Vicenza soprattutto nel periodo in cui si decideva dell’innalzamento del monumento ai prodi italiani del 1848. Nella delibera infatti si leggeva testualmente che l’abbattimento si rendeva necessario onde “evitare qualche tumultuosa dimostrazione” anche alla luce delle continue lagnanze della popolazione. Nella delibera consiliare del 7 agosto 1866 veniva stanziata invece una somma di 20.000 lire, che doveva essere utilizzata oltre che per sussidi alle famiglie bisognose dei morti e mutilati del Comune nelle varie guerre d’Indipendenza e dei benemeriti della Patria, per un monumento o lapide da erigersi al Monte Berico, in ricordo dei caduti italiani nella guerra del 1848. In quella seduta era presente anche il Deputato al Parlamento Antonio Mordini, Commissario del Re per la città e provincia di Vicenza, che espresse la sua piena approvazione a quanto la Giunta comunale aveva precedentemente proposto al consiglio; nella relazione però veniva avanzata anche la richiesta di togliere il monumento-ossario voluto dagli austriaci che si trovava nel piazzale di ponente del Santuario di Monte Berico. La Giunta proponeva di sostituire “in altra forma ed in posizione più idonea altro monumento o lapide in ricordanza delli caduti nelle guerre d’Indipendenza del 1848” .  Lo stesso Commissario Regio Mordini esprimeva alcuni suoi “pensamenti” in merito, in quanto la demolizione del monumento austriaco implicava il parere del Governo, trattandosi di proprietà dello stato. Mordini ritenne opportuno che potesse rimanere anche il monumento austriaco insieme a quello che si intendeva costruire. Rammentava che la pace ai sepolti non poteva esser turbata e affermava che “li nostri antichi Romani, padroni del Mondo, hanno parsi monumenti dapertutto ricordanti le loro glorie e le loro vittorie più o meno affligenti i popoli vinti; ma pure furono dapertutto e sempre rispettati” . Inoltre: “la iscrizione posta dagli Austriaci non essere d’altronde offensiva” ricordando “solo il fatto storico di soldati austriaci che combatterono e caddero da forti per l’incolumità dell’Austria” . Il 2 marzo 1867, il Ministero dell’Interno rispose in modo negativo alla richiesta della Giunta vicentina di toccare l’ossario, sostenendo che “Il Governo austriaco ha testé raccomandato, alla protezione del Governo di S. M. il Re, le tombe e monumenti de’ Generali Ufficiali dell’Esercito austriaco morti in Italia di morte naturale o sui campi di battaglia. Il Governo del Re non ha mancato di assicurare il Governo austriaco che come non si è pel passato non si mancherà mai per l’avvenire a questo debito, ed ha soggiunto anzi essere superflua simile raccomandazione accennando anche che a Novara e a Solferino nel dì dei morti vedonsi pietosamente ornate di fiori le fosse sia dei nostri soldati che degli austriaci” . L’ostilità verso l’ossario rimase comunque viva, come si può evincere da una segnalazione dell’Ufficio Tecnico comunale del 30 aprile 1867, in cui veniva indicato il distacco doloso di una delle quattro pesanti catene di ferro che circondavano il monumento. Il Sindaco inviava così al Genio Militare la suddetta comunicazione per attendere alle dovute “disposizioni che ritenesse opportune onde impedire il temuto derubamento” .

2.2 – I PROGETTI PER IL MONUMENTO AI MORTI ITALIANI E PER LE      COMMEMORAZIONI DEL 1848
Il 7 agosto 1866 veniva eletta dal Consiglio una commissione composta da cinque membri per realizzare un’opera che ricordasse i caduti italiani. La commissione era costituita da: Fedele Lampertico, Luigi Piovene, Jacopo Cabianca, Giuseppe Fogazzaro e Lodovico Gonzati.  Il 3 novembre 1866, la commissione emanava un avviso indirizzato agli architetti e scultori vicentini, premettendo che il Consiglio comunale aveva deliberato di erigere sul Monte Berico un Monumento per gli Italiani caduti il 10 giugno 1848 e si rivolgeva quindi a loro perché presentassero un progetto, avvertendo che la somma destinata al monumento sarebbe stata di 12.000 lire. Si decideva che il monumento dovesse esser collocato presso il luogo della battaglia, lasciando all’autore del progetto di determinare il sito ritenuto più adatto. Il progetto doveva essere presentato al Municipio entro il mese di novembre, corredato di un esatto conto preventivo della spesa. La commissione se ne sarebbe riservata la scelta e all’autore del progetto prescelto assegnava la retribuzione di 200 lire. Vennero presentati diversi progetti ma fra tutti furono presi in considerazione soltanto due . Per la costruzione del monumento, oltre alle 12.000 lire, previste, furono aggiunte 4.000 lire devolute dal re in occasione della sua visita.  In seguito, per il luogo di collocazione del monumento si decise che il sito adatto fosse nel terreno di proprietà comunale. Infatti, precedentemente, le trattative con il privato Calvi (il suo terreno in un punto elevato era quello più adatto ed era inoltre il luogo dove esisteva nel 1848 il telegrafo) e con i fratelli Bragadin caddero a vuoto, in quanto le richieste furono ritenute esose. Il contesto topografico era dunque cambiato, e non era più adatto il progetto scelto, anche se si diede ugualmente il premio di 200 lire all’autore prescelto, Giovanni Negrin . L’idea predominante nelle conferenze della giunta municipale e della commissione fu quella di compiere la muraglia curvilinea, da costruirsi come appoggio al monumento stesso, nella parte che fronteggia la Basilica di Monte Berico a settentrione. Il consiglio accolse la proposta e rinnovò il mandato alla commissione, autorizzandola ad aprire un nuovo concorso o di dare incarico a qualche altro artista per questo progetto. Alla commissione nel frattempo si aggiungevano due membri nelle persone di Domenico Peterlin e di Luigi Toniato.
Nel frattempo nel mese di marzo c’era stata la visita in città di Giuseppe Garibaldi per appoggiare la candidatura di Angelo Piloto  nelle imminenti elezioni politiche .
Fu un giorno di festa popolare: Garibaldi fu ricevuto dalla Giunta e da diversi suoi commilitoni di città e provincia. Dalla Loggia della Basilica Palladiana tenne un discorso accorato auspicando che i rappresentanti a Roma sapessero “far valere i diritti” soprattutto di “quella parte di popolo che ha bisogno di pane”. Visitò anche il Teatro Olimpico ripartendo poi nello stesso giorno, dopo poche ore dal suo arrivo, proseguendo verso Verona il suo rapido viaggio elettorale . La campagna elettorale rappresentava una novità per il contesto vicentino e fu particolarmente vivace, dato che il corpo elettorale era molto incerto se sostenere appunto Piloto o appoggiare il candidato moderato Fedele Lampertico  “leader indiscusso dell’oligarchia moderata, discreto ma onnipotente dominatore della vita pubblica locale” .
Il 20 aprile 1867 si riunì il Consiglio comunale per decidere, tra gli altri oggetti, quando e quali solennità e festività fossero da compiersi da lì in avanti in città . Occorreva deliberare se fossero da attivarsi delle celebrazioni in occasione di anniversari patriottici: come quelli del 20 e del 24 maggio 1848 in cui vennero respinti gli attacchi nemici, oppure il giorno 10 giugno 1848, la data della resa agli austriaci. Nel dibattito interveniva il consigliere Francesco Stecchini, il quale disse che fra le molte giornate che si proponevano di commemorare una mancava all’appello ed era quella del 13 luglio 1866 che segnava la liberazione di Vicenza dagli austriaci. Il consigliere Formenton, osservando che gli avvenimenti del 1848 si collegavano fra loro e che il 10 giugno fu il più glorioso, benché di esito infelice, proponeva di limitare le solennità al detto giorno attraverso una funzione funebre e di riservare al 13 luglio le dimostrazioni di “gioia”. Alla fine si decise, che mentre per quanto riguarda il giorno 20 maggio, il municipio non avrebbe effettuato od organizzato alcuna solennità, lasciando però ai cittadini qualsiasi libera dimostrazione di gioia, si sarebbe festeggiato il 24 maggio (alla mattina ci sarebbe stata la banda nazionale e lo spiegamento delle bandiere mentre alla sera si sarebbe predisposta la illuminazione della piazza con un’atmosfera musicale). Con votazione unanime fu deliberato poi che il 10 giugno ci sarebbe stata una messa funebre “alla militare” in Campo Marzio. La posa della prima pietra del monumento  sul Monte Berico, in ricordo dei caduti per la patria, si sarebbe svolta subito dopo ed in continuazione della messa, attraverso una processione al Monte Berico .
2.3 –  LA PRIMA COMMEMORAZIONE E L’INAUGURAZIONE DEL “CENOTAFIO” DEI CADUTI PER L’INDIPENDENZA
Nell’intento degli organizzatori la commemorazione del 10 giugno doveva rappresentare il momento in cui il patriottismo diveniva patrimonio di ampi settori della popolazione; la presenza di vessilli, inni e canti e apparato scenografico, dovevano creare quella partecipazione emotiva e suggestiva che conferiva alla commemorazione un forte valore identitario . Per presentare la prima celebrazione del 10 giugno, il Giornale di Vicenza citava Manin: “Un popolo, lasciò egli detto, un popolo che ha fatto e sofferto quel che soffre il popolo nostro, non può morire. Verrà giorno in cui splendidi destini coroneranno i suoi meriti; questo giorno è nelle mani di Dio” . Al Campo Marzio, erano presenti il Sindaco Costantini, la Giunta Municipale, il Prefetto, le autorità civili e militari, la Società operaia di Vicenza e Rappresentanze delle società provinciali operaie e gli stessi veterani del 1848. Presenziavano anche la Guardia Nazionale di Vicenza, quella di Schio e di Bassano e di altre città, gli alunni del Collegio Cordellina e l’artiglieria della Guardia Nazionale di Brescia. Tra i vicentini presenti alla prima commemorazione troviamo anche Tecchio, “i deputati Lampertico e Mariano Fogazzaro, e distinti personaggi di altre città italiane che nel 1848 avevano partecipato al combattimento. Immenso fu il concorso del popolo” . Terminata la messa funebre parlò Don Giuseppe Fogazzaro. Il suo discorso fu uno dei più incisivi . Alla commemorazione prese parte anche una delegazione di un’altra eroica città del 1848, Brescia, che inviò i cannoni del 1848 della sua Guardia Nazionale per rendere “salve d’onore” ai caduti di Vicenza. Le Guardie nazionali, le autorità, le corporazioni e i personaggi sopraccitati salivano al Monte Berico, per assistere all’apposizione della prima pietra del Monumento decretato dal Consiglio Municipale. Arrivati sul Monte Berico parlò  il patriota  Antonio Melo, che aveva combattuto nel ruolo di aiutante di campo nelle campagne militari del 1848-49 . Incisive furono anche le parole pronunciate ai giovani da parte del liberale Paolo Lioy  che li esortò a non dimenticare i sacrifici compiuti dai caduti del 1848 . La celebrazione del 10 giugno si  rivestiva dunque di quella forma di sacralità, che non era differente da quella intrapresa durante le cerimonie religiose .
Nei mesi successivi proseguì la costruzione del monumento ai caduti. Nel novembre del 1867, la somma per la costruzione dell’opera veniva portata a 18.300 Lire. Dopo varie sedute, la commissione incaricata invitava tre scultori, Menesini, Zannoni e Tantardini, a presentare il modello per una statua che avesse interpretato il “Genio dell’Insurrezione”, rappresentante il movimento del 1848  . Il monumento sarebbe stato addossato alla roccia dove era stata posta la prima pietra. Intanto la commissione artistico-pratica dell’Accademia Olimpica  presentava alla giunta municipale la richiesta “di alcuni scarpellini vicentini, i quali esprimevano il desiderio che nell’erezione del monumento si badasse a dar lavoro a cittadini piuttosto che ad altri” . La commissione accettò che lo scultore, scelto per la costruzione del monumento,  conferisse i lavori ornamentali ad artisti locali . L’artista Menesini rifiutò e fu invitato allora al suo posto, l’artista Trevisan. Il giorno 19 giugno 1868, dopo aver analizzato i modelli presentati, il professore di scultura veneziano Luigi Ferrari, che era stato nominato consulente, mandò il proprio giudizio al sindaco. Dei due progetti che alla fine furono giudicati, di Zannoni e di Tantardini, venne scelto quello di quest’ultimo. Antonio Tantardini  aveva descritto minuziosamente il soggetto del progetto in una lettera inviata alla commissione: “Studiai una misura d’uomo che rappresentasse con la freschezza e insieme colla vigoria dell’età migliore, colla robusta snellezza della statura, colla mossa impetuosa ma dignitosa della persona, coll’ideale perfezione del nudo, colla copia decorosa ma non pesante dei panneggiamenti. Perché simboleggiasse più chiaramente il Genio…perché ognuno vi ravvisasse alla prima il Genio dell’Insurrezione popolare, inesorabile vendicatore di antiche ingiustizie, gli atteggiai la sinistra al gesto impaziente di chi sveglia i sonnacchiosi per chiamarli all’armi, e gli posi nella destra la spada fiammiforme onde la Bibbia ci mostra armati i ministri della giustizia divina… Le catene infrante, l’asta spezzata del vessillo austriaco e l’aquila bicipite ch’egli calpesta… L’espressione del volto…la si lascia però indovinare dai pochi lineamenti accennati e dalla forma della selvaggia capigliatura sdegnosamente abbandonata alle buffe dei venti…” . Tantardini aveva proposto di collocare la statua nello spazio aperto, detto il Cristo, a metà dei portici della salita di Monte Berico. Nel consiglio comunale del 21 novembre 1868, veniva però bocciata la proposta di Tantardini e si approvava invece il luogo dove era stata murata la prima pietra  . Il contratto stipulato con l’artista Tantardini (gennaio 1869) prevedeva anche la costruzione di “una nicchia architettonica, sporgente dalla quale, a modo da potersi vedere da tutti i lati, sorgerebbe la statua detta: il Genio dell’Indipendenza, anziché il Genio dell’Insurrezione”. La denominazione “Genio dell’Insurrezione” veniva in seguito modificato dallo stesso autore, in quanto la parola “insurrezione” non venne trovata idonea. Un cambio di denominazione che si sarebbe rivelato opportuno, nel 1871, anche per il verificarsi di un evento insurrezionale – La Comune di Parigi  - che aveva “spaventato co’ suoi orrori il mondo” e la stessa Vicenza. In quell’occasione venne fatto notare inoltre “che, le battaglie combattute sul Monte Berico, per quanto gloriose, furono però di difesa e di esito sfortunato, per cui non potrebbe rappresentarsi né una vittoria né la cacciata degli austriaci senza mancare alla storia ”.  Tantardini si impegnava quindi di consegnare l’opera entro il mese di maggio o nei primi di giugno del 1870. L’altezza della statua sarebbe stata di 2,70 metri, in marmo di Carrara, di seconda qualità” .  Il 14 marzo 1870, Tantardini scriveva al Sindaco Piovene  che non avrebbe adempiuto all’obbligo di consegna dell’opera in tempi utili, per “le ingrandite proporzioni della statua ed il ritardo non indifferente della venuta della commissione pel collaudo del modello” . Nel frattempo si procedeva alla costruzione della parte architettonica in cui si sarebbe innalzato il monumento; si apponeva “una porta sepolcrale di granito sopra un basamento, e fiancheggiata da pareti di pietra de’ nostri colli ”. La statua alla fine pesava 29 quintali circa e di altezza di 2,80 metri. La statua rappresentava il Genio della Indipendenza, mentre venivano tolte sia l’asta spezzata del vessillo austriaco sia l’aquila bicipite che invece erano previste nel progetto originale. L’eliminazione sia del vessillo che dell’aquila bicipite che la statua avrebbe dovuto calpestare, avvenne perché non rispecchiava la realtà storica, in quanto nel 1848, furono gli austriaci a sconfiggere le forze patriottiche italiane. La statua “sorge dalla tomba dei Prodi caduti, con l’ira che si manifesta nel volto e nell’atteggiamento; anzi ogni parte del corpo è in convulsione, eccitando gl’Italiani a scacciare dalle lor terre lo straniero; impugnata ha la spada fulminea  nella mano destra, mentre alza con impeto il sinistro braccio a mano spalancata, come sfolgoranti sono gli occhi… ”.
Arrivò quindi la mattina di sabato 10 giugno 1871, giorno previsto per la sua inaugurazione. Il programma prevedeva una messa funebre per i caduti nel Santuario di Monte Berico alle ore 9, seguita dall’inaugurazione del monumento commemorativo. La messa fu celebrata da don Giuseppe Fogazzaro. Mancava l’anziano colonnello Giacomo Zanellato, il quale rivestiva il ruolo di presidente onorario dell’associazione veterani vicentini e che, invitato, comunicava, la sua indisponibilità sopravvenuta a causa della precoce morte del figlio Carlo. Alla cerimonia  erano presenti, tra gli altri, il generale Pietro Eleonoro Negri, rappresentante del re Vittorio Emanuele, la Guardia Nazionale, la cavalleria reale, una compagnia di granatieri, le autorità di diverse città italiane, i veterani vicentini del 1848  che portavano la bandiera decorata al valor militare oltre ad associazioni di veterani di altre località e gli alunni del collegio  Cordellina e tre bande musicali. Si deposero corone di alloro e fiori al monumento tra bandiere tricolori issate. Nel padiglione attiguo alla Villa Piovene si affollarono le autorità e gli invitati. Il senatore Tecchio, ex membro del comitato provvisorio dipartimentale di Vicenza nel 1848, tenne un lungo discorso . Subito dopo il discorso di Sebastiano Tecchio, prese la parola l’avvocato Valentino Berti di Bassano. Quest’ultimo era membro della Giunta che affiancava nel 1848 la Congregazione municipale in carica nella città di Bassano. Berti  disse “che la sua Bassano voleva far udire la sua voce dinanzi al monumento che s’inaugurava” . Il poeta Giacomo Zanella scrisse un’ode per l’evento . Finita la cerimonia “che ispirò nei cuori religioso sentimento, era uno spettacolo a veder il vario movimento di tanta gente che discese dal Monte, celebre per tante patrie memorie” .
La commemorazione era avvenuta poco dopo la presa di Roma e anche a Vicenza si era aperta “una lacerazione  che soltanto decenni tormentati e inquieti avrebbero, lentamente, colmato e sanato” . Lo scontro tra Stato e Chiesa oramai si faceva lampante e le stesse eredità del Risorgimento verranno viste in maniera diversa fra i vari attori presenti sulla scena politica e sociale alla fine del secolo XIX. Infatti anche i cattolici cercarono, negli anni successivi alla breccia di Porta Pia, un posto decisivo nell’identità della nazione, opponendosi inevitabilmente a quella sacralizzazione politica e civile, che l’altra Italia, quella liberale, stava realizzando.



Cap. 3
LE COMMEMORAZIONI TRAGICHE DEGLI ANNI 1896-1897
3.1 – POLITICA E AMMINISTRAZIONE A VICENZA (1870-1896)

La presa della “città eterna” colse di sorpresa la città berica. Infatti, anche i politici vicentini, durante la seduta comunale del 5 settembre 1870, non avevano fatto parola su Roma. Comunque il “Giornale di Vicenza” del 13 settembre scriveva che, anche a Vicenza come nelle altre città italiane, non era meno sentito il desiderio che la questione si risolvesse a breve termine. La sera del 20 settembre 1870, la folla si riversava sulla piazza Maggiore, acclamando alla capitale d’Italia e alla caduta del potere temporale . Il prefetto Bossini, in quell’occasione, lesse dal verone dell’allora sede della Prefettura, la Loggia del Capitaniato, un telegramma del Ministro dell’Interno Giovanni Lanza che confermava la notizia. La giunta comunale, presieduta dal sindaco Luigi Piovene Porto Godi, fece pubblicare un avviso per invitare i concittadini alla calma , mentre il consiglio comunale della città di Vicenza, convocato nella seduta straordinaria del 22 settembre, esprimeva all’ unanimità, al Re, sentimenti di devozione (come da una missiva indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri in Firenze) . Invece il silenzio fu totale da parte dei clericali. Essi non davano alcun cenno dell’avvenimento nel loro “Foglietto religioso istruttivo popolare”, giornale più formativo che informativo, ma pubblicavano un monito indirizzato agli anticlericali in un articolo intitolato “La Chiesa vive immortale”  .
Anche a Vicenza Porta Pia portò i cattolici ad una svolta radicale, come del resto avvenne in ambito nazionale, anche se inizialmente, infatti, appoggiarono la linea dei liberali moderati. I cattolici cominciarono ad acquisire consensi mostrandosi contrari alla laicizzazione scolastica nei Consigli comunali e soprattutto contestando lo “Stato laicista”, che veniva da loro considerato come “negatore del soddisfacimento dei bisogni primari dei ceti sociali miseri” .  Lo scontro tra i cattolici e i radicali si manifestò nel 1874 quando la Giunta presieduta da Giuseppe Bacco , di idee progressiste, non partecipò alla annuale processione votiva del 25 febbraio   a Monte Berico  provocando forte indignazione da parte del vescovo Farina e del clero. Sempre in quell’anno, a Venezia, si tenne il primo congresso cattolico che vide poi , a poco a poco, il rafforzamento, a Vicenza e provincia, di una linea ancor più intransigente dei clericali, proprio nell’anno del “Non expedit ”. Si sarebbero impegnati, su questo fronte, in primis il tipografo vescovile Giacomo Rumor e i  fratelli sacerdoti, Scotton . In questi anni la vita politica e sociale della città e la provincia era dominata, da un gruppo potentissimo di personalità attive anche in Parlamento soprattutto nel Senato del Regno: Tecchio (Presidente del Senato dal 1876 al 1884), Lampertico e l’industriale e imprenditore laniero Alessandro Rossi . Nel contempo, fondamentale per la propaganda cattolica nel contesto vicentino fu la nascita nel 1876 del giornale locale clericale “Il Berico”, che tanta voce avrà negli scontri politici di fine secolo. Nelle elezioni parziali del giugno 1876, per il rinnovo di un quinto del Consiglio comunale, i cattolici, sebbene sconfitti dai moderati, non videro l’avanzata del temuto partito progressista, loro diretto antagonista. Alle elezioni politiche nella provincia di Vicenza, avvenute nel novembre del medesimo anno, si imponeva invece l’ex sindaco della città berica, Giuseppe Bacco, dopo il ballottaggio con Lioy. Nella tornata elettorale politica si erano astenuti i cattolici, ai quali il giornale “Il Berico” aveva ricordato il carattere precettivo del non expedit. La situazione però cambiò da lì ad un anno per la morte dello stesso Bacco; in sua sostituzione fu eletto, il liberale Paolo Lioy.  Successivamente, sempre in campo politico, i cattolici cominciarono ad abbandonare il connubio con i liberali moderati, cogliendo l’occasione per affermarsi nelle lotte elettorali amministrative, proponendo come candidati i rappresentanti della Gioventù cattolica italiana e figure legate all’ ”Opera dei congressi”. Raggiunsero un esito favorevole nel 1882 quando si verificò l’entrata nel Consiglio provinciale, del loro candidato Gaetano Bottazzi (presenza strategica in quanto era pure direttore del “Berico”). Nel 1883, comunque, i cattolici, per evitare di essere maggiormente emarginati dalla scena politica, dovettero spostarsi nuovamente su posizioni accomodanti con gli stessi liberali moderati . Nel corso degli anni ottanta si ebbero un grande sviluppo ed una vera proliferazione di società cattoliche operaie ed agricole di natura assistenziale-paternalistica e con una impostazione mutualistico-corporativa .
Sul versante progressista e radicale, nel corso dei primi mesi del 1886, un gruppo di Reduci garibaldini pensò “di unirsi in fraterna associazione”. Nel giugno di quello stesso anno, stante il gran numero di adesioni, nacque quindi il sodalizio , il quale avrebbe tenuto sempre un buon rapporto con le altre  associazioni militari consorelle già fondate, “così da costituire quasi una sola famiglia ”. Questa presenza garibaldina, in un certo senso, acuì la stessa “lotta” antireligiosa che si manifestò clamorosamente durante l’ultimo decennio dell’ottocento. Un altro soggetto politico si muoveva nel campo progressista: la massoneria. La massoneria, già da qualche tempo, chiedeva la realizzazione dell’ara crematoria, trovando nell’ambito cattolico un netto rifiuto alla sua realizzazione. Un comitato di “cremazionisti  “ si formò durante una seduta nella sala dei Reduci garibaldini nel settembre 1888 . Il comitato chiese alla Giunta di portare in Consiglio la richiesta della realizzazione, in un’area chiusa del cimitero, o in un terreno contiguo, della ara crematoria. La questione venne portata in Consiglio e trattata nella seduta del 3 luglio 1889. In questa seduta si approvò la costruzione del forno crematorio ma, dato che per la pratica attuazione dovette attendere che venisse pubblicato il regolamento che completasse la legge,  la sua realizzazione avvenne solamente nel 1914 . La massoneria, inoltre, in quel periodo, si batteva anche per i funerali in forma civile.
Nelle elezioni amministrative del 1889, la lista clericale presentava ben diciassette candidati in comune con i liberali, quest’ultimi però ne uscirono vittoriosi. Il crescente peso politico dei cattolici iniziava a preoccupare le autorità. Il prefetto di Vicenza, Paroletti , all’inizio del suo mandato, scrisse, nella sua relazione inviata successivamente al Ministero dell’Interno, che il Comitato diocesano e i Comitati parrocchiali creavano in provincia come in città, “una vera associazione politica organizzata”. Allertava inoltre che, sebbene fino a quel momento non si fosse verificato alcun “eccesso o manifestazioni sovversive”, in un prossimo futuro, questi comitati avrebbero potuto “dare motivo di seria preoccupazione all’evenienza di gravi commozioni politiche”, in quanto, oltre a basarsi sul fanatismo religioso, coinvolgevano un numero non irrilevante di soci e di persone . Nel settembre 1891 si svolse il IX Congresso dei cattolici italiani nella Chiesa di S. Corona a Vicenza. Il Congresso aveva, tra gli altri, lo scopo di approfondire, attraverso una attenta analisi e riflessione, la nuova enciclica “Rerum novarum ” del Papa Leone XIII. Nelle elezioni comunali del giugno 1892, i cattolici riuscirono a eleggere tre rappresentanti . Questa presenza si caratterizzò per una critica al Risorgimento italiano e per un costante scontro con gli “adepti patrioti”. Tutto ebbe inizio nel settembre di quell’anno, quando, a pochi giorni dalla morte di Enrico Cialdini, in Consiglio, il liberale  Paolo Lioy presentò  una mozione nella quale proponeva che fosse posto un ricordo commemorativo allo stesso Cialdini e a Massimo D’Azeglio, nella casa dove soggiornarono nel 1848 . Lioy inoltre ricordava Cialdini come il vincitore a Castelfidardo (dove sconfisse lo Stato Pontificio) e a Gaeta, e chiedeva quindi al Consiglio di associarsi a questo degno omaggio. In quell’istante tutti si alzarono, approvando la mozione, meno i tre consiglieri cattolici che rimasero seduti in segno di disapprovazione . La mozione di Lioy fu però discussa solamente in una fase successiva, durante il Consiglio comunale del 21 novembre. Lioy propose, cambiando leggermente la sua iniziale idea, anziché due lapidi, fosse posta “una memore pietra” cumulativa a Monte Berico . I consiglieri cattolici, Bottazzi, Rumor e Sinigaglia, affermarono che avrebbero approvato la lapide sul Monte Berico se il suo significato fosse stato meramente quello che riguardava la difesa della combattiva città di Vicenza nel 1848, scevro di ulteriori significati. Chiusa la concitata discussione del Consiglio (per un quarto d’ora venne sospesa la seduta e fatta  sgombrare l’aula consiliare per proteste provenienti da parte del pubblico, che inveiva contro i consiglieri cattolici),  si mise ai voti la proposta di Lioy, che venne approvata dal consiglio con i voti contrari dei consiglieri cattolici .
Il clima sarebbe ritornato acceso, su questa linea iniziale, l’anno seguente, nel 1893, quando venne eletto il sindaco di tendenze radicali e progressiste, Orazio Tretti. I moderati cercarono una fusione con gli stessi progressisti, nell’intento di sbaragliare i cattolici. Tentativo che però andò a vuoto e che causò la loro sconfitta (i moderati entrarono in Consiglio nel numero di sei, più altri tre che avevano in comune con la lista radicale). I cattolici invece, in quell’occasione, riuscirono a portare in consiglio la loro intera lista di minoranza. Durante il Consiglio comunale del 20 giugno 1893, gli animi si infervorarono ulteriormente. In quell’occasione, la Giunta Tretti portava al Consiglio la domanda di un comitato di cittadini, i quali chiedevano l’autorizzazione al municipio di murare un ricordo marmoreo a Giuseppe Mazzini sul palazzo delle Magistrature, nella parte prospicente la piazza Maggiore. Il ricordo marmoreo consisteva in un busto addossato ad una lapide che porta la scritta: “A Giuseppe Mazzini – Vicenza 1893”. Aperta la discussione intervenne il senatore Lampertico, il quale faceva notare che la domanda era stata presentata da un comitato anonimo e che, dal momento che si voleva apporre il nome della città di Vicenza sulla lapide, si sarebbe dedotto che non era più soltanto il comitato od un gruppo di persone a volerla, ma lo stesso Comune e Vicenza. Asseriva inoltre che se si fosse voluto ricordare tutti coloro che avevano contribuito con le idee e i fatti all’indipendenza e all’unità, i nominativi da contemplare sarebbero stati moltissimi. Lampertico sosteneva quindi che il consiglio comunale non dovesse deliberare su questo oggetto.  Osservava che quando si erano proposti ricordi in onore a Vittorio Emanuele II e a Garibaldi, queste iniziative erano legate a coloro che avevano direttamente e immediatamente concorso a formare l’Italia e che si poteva porre allo stesso livello soltanto Camillo Cavour e, per quanto riguarda i veneti, Daniele Manin. Dopo l’intervento di Lampertico, prese la parola il consigliere Antonio Fogazzaro, affermando che, sebbene Mazzini non avesse ideali riconducibili certamente alla loro fede monarchica, non si poteva “essere sospetti di dividere le sue idee circa la forma di governo più conveniente alla nazione” e citando un verso, “cattivo senza dubbio” di Alessandro Manzoni, rammentava una frase di quest’ultimo: “Liberi non sarem se non siamo uni”. Quindi, per Fogazzaro, bisognava comunque tributare un degno ricordo alla figura del genovese. Nel suo intervento si augurava, peraltro, che Vicenza, non avendo ancora provveduto, avrebbe onorato in futuro, lo stesso Camillo Cavour .  Il  consigliere cattolico Bottazzi invece votò contro la proposta in quanto, attraverso la petizione del comitato succitato, come aveva affermato anche Lampertico, “non si poteva ad un solo firmatario sostituire la stessa cittadinanza” . Alla fine comunque la proposta della Giunta fu approvata (22 sì e 15 no). Il voto contrario era espressione dei soliti consiglieri cattolici, ai quali si aggiungeva Lampertico . La collocazione della lapide e del busto di Mazzini  avvenne nella “data solenne” del 20 settembre di quello stesso anno.
Le nuove elezioni amministrative, svolte nel 1895,  videro la candidatura per la prima volta di esponenti del partito socialista, che però non vennero eletti  mentre i cattolici entrarono in Consiglio in numero consistente con ben 18 membri . Nell’agosto di quel medesimo anno, la giunta guidata dal sindaco laico Antonio Porto, portò a conoscenza del Consiglio la sua proposta per commemorare il 25° anniversario della liberazione di Roma. La data segnava invece una ricorrenza “nefanda ed ignobile” per i cattolici. Questi, infatti, dopo che fu letta la relazione della giunta annunciarono, attraverso il portavoce cattolico Roberto Zileri , di estraniarsi dalla discussione e di votare contro alla stessa proposta della Giunta. In tale contesto specificavano che erano “coerenti ai loro principi e convinti che la vera grandezza d’Italia non si possa conseguire senza la conciliazione dello Stato colla Chiesa ”. La proposta della Giunta comunque venne approvata; i voti contrari risultarono soltanto quelli dei cattolici.
Il 20 settembre, come del resto annualmente avveniva, ci furono i festeggiamenti per la presa di Roma del 1870. La città berica in quell’occasione fu imbandierata e molti negozi erano chiusi sin dal mattino . Nelle vie si potevano scorgere scritte che inneggiavano a Roma capitale, al XX settembre e all’Italia . Corone di fiori furono poste nei monumenti di Vittorio Emanuele II, di Garibaldi e in quello dei Caduti del 1848 a Monte Berico. Alla sera ci fu una fiaccolata per le vie del centro storico, alla quale presenziarono varie associazioni tra le quali spiccavano quelle militari dei reduci. La fiaccolata passò anche per la piazzetta di Ponte degli Angeli (nel quartiere detto Trastevere di Vicenza ) che una istanza chiedeva fosse chiamata proprio XX settembre e che per l’occasione era illuminata ed addobbata a festa. La Banda cittadina suonava anche la Marcia Reale di Gabetti e l’Inno XX settembre di Eilenberg, nella piazza Maggiore illuminata. I cattolici di Vicenza organizzarono invece in mattinata una santa messa, nel Tempio di S. Corona, in segno di dimostrazione e di fede al Papa. Si trattava per loro di un triste giorno, come scrisse il giornale cattolico “il Berico”: riuniti “nel silenzio e nella preghiera … aspettando sereni l’ora della riscossa”. Si poteva leggere che la stessa “Chiesa sapeva rispettare se stessa e il prossimo” e che “ la decantata libertà (dei liberali e non) non seppe ancora insegnare ai suoi proseliti” .
Sulla scorta di questa celebrazione, all’inizio del 1896, la Giunta Porto chiedeva al Consiglio di accettare una istanza di quasi 400 cittadini, che chiedevano fosse dato il nome 20 settembre alla piazzetta degli Angeli e alla via attigua detta Fontana Coperta. La Giunta aveva però ricevuto anche un’altra istanza sottoscritta da 700 persone, le quali chiedevano che il nome della Contrada Fontana Coperta rimanesse invece inalterato. Proponevano invece di ribattezzare, con il nome di Piazza XX maggio, lo spazio al di là del Ponte degli Angeli (la Piazzetta omonima), in ricordo della giornata del 1848, quando la zona fu teatro di uno scontro vittorioso con gli austriaci . Iniziò quindi in Consiglio la discussione in merito a queste proposte ricevute, che ricordavano due diversi risorgimenti: una si riferiva al Risorgimento laico (il XX settembre), l’altra riguardava quello cittadino (il 1848). Il senatore Lampertico era favorevole alla denominazione della piazza con il nome XX maggio “in ricordo dell’anno infelice ma grande ”. Affermò che era quasi un’offesa alla storia di Vicenza cercare altre date tralasciando quella del 1848 che segnava invece “il fatto storico più memorabile dopo Pontida”. Il consigliere Lioy sottolineava che entrambe le istanze avevano un carattere patriottico. Egli propose che, per non fare torto a nessuno, fosse lasciato il suo antico nome alla Contrada Fontana Coperta e che rispettivamente, alla piazza degli Angeli e alla contrada di S. Lucia, fossero dati i nomi di: XX settembre e XX maggio. Il consigliere Clementi, preoccupato di probabili futuri dissidi, consigliava di lasciare inalterati i nomi “che il popolo seguita a ripetere” e che rappresentavano una tradizione. I cattolici furono tra coloro che lo appoggiarono. L’ordine del giorno del Clementi fu approvato e quindi non venne presa alcuna decisione. La questione della toponomastica risultò un alibi dato che i 18 consiglieri cattolici in Comune rappresentavano una minoranza troppo potente. Si voleva imporre ai cattolici l’alternativa o di diminuire il numero oppure di assumersi la totale responsabilità politica. Successivamente, le divergenze si fecero accese all’interno dello stesso Consiglio, inerenti anche a questi dibattiti, tanto che la Giunta Porto si vide costretta a rassegnare le proprie dimissioni.
In occasione delle elezioni amministrative del 26 aprile 1896 , i moderati avevano architettato un “piano di mutua intesa con i cattolici” allo scopo di vanificare un successo radical-progressista. In caso di vittoria, moderati e cattolici  si sarebbero divisi l’amministrazione del Comune (sindaco, tre assessori effettivi ed un supplente, scelti tra i moderati, mentre gli altri tre assessori, con il loro supplente, scelti fra i cattolici) . La vittoria dei cattolici però spiazzò i moderati, che si videro, dopo la formazione della prima Giunta integralmente cattolica, relegati alla minoranza.  Riaffiorò l’antica ostilità dei moderati verso i cattolici, e come scriveva lo stesso Lioy: “meglio all’inferno che in paradiso coi clericali ”. Totale fu, invece, la sconfitta tanto dei socialisti che dei radicali. Il 5 maggio veniva eletto sindaco dal Consiglio, il cattolico intransigente Roberto Zileri Dal Verme. Il 23 maggio il giornale clericale la “Riscossa” dei fratelli Scotton scrisse: “si elesse un sindaco ed una Giunta d’un solo pezzo, senza nessuna sfumatura, senza nessuna penombra di clerico-liberalismo: un drappello di gentiluomini seri, illuminati, operosi e tutti, niuno eccettuato, cattolici, apostolici, romani, papali che non ce n’è una macola né un neo… è la prima volta che un municipio… ha un carattere così schietto, così marcato e così universale di cattolicesimo senza epiteti, ossia di papalità” .

3.2 –  I SEGNI DEL MITO DEL RISORGIMENTO: I MONUMENTI A VITTORIO EMANUELE II E A GARIBALDI

Nel gennaio del 1878, moriva Vittorio Emanuele II. Nella seduta straordinaria dell’ 11 gennaio 1878, il consiglio comunale deliberava all’ unanimità una funzione funebre in onore del sovrano, da celebrarsi nella Cattedrale di Vicenza nel giorno in cui a Roma veniva celebrato il funerale del Re e dove sarebbero stati presenti la bandiera decorata del Comune ed il Sindaco Clementi . Inoltre, su proposta del consigliere Cavalli,  si approvò la realizzazione di un busto per ricordare Vittorio Emanuele. Questa iniziativa rientrava in  quella “monumentomania”, diffusasi negli ultimi decenni del XIX secolo, nata dalla necessità di trasmettere la memoria storica dei protagonisti dell’epopea nazionale ed utilizzata “ai fini della costruzione di un’identità locale che fosse in simbiosi con l’identità nazionale ”. Nel contesto della monumentomania, di grande importanza era anche “il decoro delle quinte stradali e degli spazi pubblici ”. Le numerose inaugurazioni, in tutta Italia, di monumenti dedicati a figure del Risorgimento, dovevano invece essere le occasioni per tramandare, di generazione  in generazione, la gratitudine “pei sommi fattori della libertà e dell’indipendenza del nostro paese ”. L’erezione di monumenti al primo re d’Italia in tutta la penisola mise al centro della costruzione identitaria e monumentale italiana la figura del sovrano .
Il  monumento  in onore di Vittorio Emanuele II  venne inaugurato, a Vicenza, in piazza Duomo, il 18 novembre del 1880. La data coincideva appositamente con l’anniversario della decorazione della bandiera di Vicenza, insignita di medaglia d’oro al valor militare, da parte del Re. Alla cerimonia di inaugurazione , oltre alle autorità cittadine e provinciali, erano presenti anche il principe Amedeo, figlio del defunto sovrano e l’allora Ministro dei Lavori Pubblici, Alfredo Baccarini.
Altro monumento che venne realizzato a Vicenza, sull’onda di quel processo di monumentalizzazione, alla fine del secolo, fu quello in onore di Giuseppe Garibaldi. Nel giugno 1882, infatti, morì a Caprera “l’eroe dei due mondi”. Nella seduta consiliare del 5 giugno del medesimo anno, si decise all’ unanimità, tra gli altri punti, che una rappresentanza cittadina, munita della bandiera del Comune, intervenisse ai funerali di Garibaldi . Il giorno precedente venne anche celebrata una onoranza funebre, attraverso un pellegrinaggio a Monte Berico, con la presenza del Sindaco e di altre autorità cittadine. Davanti al Monumento dei caduti italiani per la Patria tenne un discorso  il Presidente dei “Volontari Vicentini del 1848 ed anni successivi”, Antonio Caregaro Negrin . La celebrazione del 10 giugno 1848 di quell’anno non poté usufruire della bandiera del Comune decorata da Vittorio Emanuele, proprio perché non riuscì a rientrare da Caprera in tempo utile e quindi fu necessario servirsi di un’altra . Il 21 agosto (27° anniversario dell’ingresso di Garibaldi a Reggio Calabria), 1887, in centro città, nella parte settentrionale di piazza del Castello avveniva, invece, l’inaugurazione del Monumento all’eroe dei due mondi , opera dello scultore romano Ettore Ferrari. Garibaldi, celebrato come combattente valoroso, e mitizzato come soldato , più di altre figure del Risorgimento, come gli stessi Cavour, Mazzini e Vittorio Emanuele, con le sue azioni patriottiche e la sua linea politica neutrale, “meritava di essere immortalato in monumenti destinati a rappresentare la sintesi storica dell’epoca risorgimentale e dello Stato moderno ”. Successivamente, il 29 giugno 1890, due guglie , speculari una con l’altra, vennero inaugurate all’esterno del Cimitero Monumentale di Vicenza. Una era stata eretta in memoria dei Garibaldini di Vicenza, a cui fa riscontro quella dei veterani, posta davanti all’ingresso principale del Cimitero.

3.3 –  1896. I PRIMI DISORDINI

 Nel 1896, con la nuova Giunta cattolica a capo del municipio di Vicenza, lo scontro politico fino a quel momento confinato solamente all’interno del consiglio avrebbe coinvolto direttamente anche la popolazione. Le tensioni entrarono nel vivo circa un mese dopo l’insediamento della nuova amministrazione comunale, e l’occasione era data proprio dal modo in cui si tendeva celebrare il 10 giugno. Con deliberazione di giunta del 3 giugno 1896, si decideva di festeggiare con una funzione funebre, attraverso una messa da Requiem. Doveva essere presente l’immancabile bandiera decorata scortata dai veterani, di mattina, nel Santuario di Monte Berico. Il sindaco avrebbe poi deposto una corona ai piedi del monumento, simbolo di “omaggio e di memore affetto” ai caduti del 1848. Si interrompeva così una consuetudine già affermata e gradita di celebrare l’evento nella fascia serale. E soprattutto si voleva ricorrere ad una cerimonia di carattere più religioso che civile in un unico pellegrinaggio. In realtà si erano già verificati, nei decenni precedenti, ma in misura esigua, casi di festeggiamenti al mattino (nel 1867, 1871 e 1876). Si era poi opportunamente ritenuto di commemorare nelle ore serali proprio per dare la possibilità a tutti di partecipare. Nei giorni precedenti il 10 giugno, il quotidiano “La Provincia di Vicenza” aveva raccolto informazioni e scriveva inoltre che “se non anche l’Associazione dei Veterani- la quale si è riserbata di rispondere all’invito della Giunta per la cerimonia della mattina – quella dei Garibaldini e dei Reduci delle Patrie Battaglie con qualche altra Associazione liberale intendono di salire come ogni anno nelle ore pomeridiane a Monte Berico per mantenere l’antica e popolare consuetudine” . Effettivamente l’attrito era sorto principalmente per la scelta della Messa da Requiem, che doveva essere organizzata, a parere dei liberali, per conto di privati, come del resto avveniva già da alcuni anni, senza però impedire la classica processione di popolo alla sera. Nel frattempo la sera del 6 giugno le Associazioni militari consorelle (Veterani 1848, Garibaldini e Reduci delle Patrie Battaglie e dell’Esercito) decidevano di non accompagnare alla mattina la bandiera del Comune decorata e di provvedere per l’usuale pellegrinaggio ricordando che tale tradizione, come in accordo con le precedenti giunte, si sarebbe dovuto compiere almeno fino al 50° anniversario . Le Associazioni militari quindi pubblicarono un manifesto esortando la popolazione ad unirsi a loro e agli stessi liberali per attuare lo stesso annuale pellegrinaggio che si sarebbe mosso dalla piazza maggiore alle ore 7 della sera, non accompagnato questa volta dalla bandiera decorata in quanto la Giunta, dopo le richieste, non concesse tale privilegio. Arrivò quindi la mattina del 10 giugno, la Giunta alle sette e mezza partì dal Municipio per raggiungere Monte Berico. La bandiera decorata  di Vicenza era portata dall’assessore Girotto e veniva salutata al suo apparire con il suono della marcia reale. Alla destra della bandiera c’era il sindaco Roberto Zileri, mentre alla sinistra c’era il veterano Angeli (ex portabandiera  dell’Associazione veterani 1848-1849 ma in quel momento decaduto perché non faceva più parte del Consiglio del sodalizio). Come da tradizione facevano da scorta i civici pompieri, mentre dietro alla bandiera erano presenti gli assessori e alcuni consiglieri. Il corteo era preceduto dalla banda cittadina, e aveva come seguito una sessantina di soci della società cattolica operaia, gli impiegati del municipio e tre veterani che erano ricoverati negli istituti di carità . Quando il corteo passò per la piazza Maggiore c’era pochissima gente . Dalle case vicine si potevano udire sonori fischi. Il corteo passò quindi per contrada Muschieria e piazza del Duomo, sfilando dinanzi al monumento di Vittorio Emanuele II. Proseguì inoltre per contrà Pasini , Teatro Eretenio e Barriera Eretenia e quindi salì al Monte Berico. Salendo, la banda suonava gli inni del quarantotto . Durante la salita al monte, il corteo venne ingrossato da altri cittadini che si mettevano ai suoi lati ed al suo seguito .  Arrivati presso il Santuario, un drappello del Reggimento Genova Cavalleria, il quale discendeva dal monte, si fermò e, schierandosi, presentò le armi alla bandiera in segno di rispetto. Sfilando davanti al monumento ai caduti del 1848, sul quale sventolavano bandiere ed era appesa una corona di alloro con la scritta: Associazione – Veterani Vicentini – 1848 1849, la testa del corteo iniziava a salire la scala del Santuario dalla porta maggiore, dove sul timpano di quest’ultima, incorniciata da veli neri, si leggeva una epigrafe che diceva: Solenni Esequie – Ai prodi caduti – Nella difesa di Vicenza – MDCCCXLVIII . Fu in quel momento che Antonio Colain , garibaldino vicentino e ardente mazziniano, vedendo insieme ad altri che la bandiera non si fermava davanti al monumento per omaggiare i caduti, si slanciò sulla bandiera portata dall’assessore Girotto cercando di strappargliela dalle mani e gridando: “questa bandiera non può entrare in Chiesa!”. Ne nacque subito uno scompiglio. L’assessore Girotto riuscì a svincolare la bandiera dalle mani dello stesso Colain che, circondato dai pompieri, dalle guardie e dai carabinieri, veniva da questi trascinato via. Mentre veniva allontanato, il garibaldino gridava alle guardie: “non sono un assassino, sono un patriota”. Alcuni applaudirono a queste parole mentre altri le deplorarono. La bandiera, intanto, che era stata abbandonata durante la colluttazione da Girotto, veniva recuperata. Colain, scortato dalle guardie e dal delegato di pubblica sicurezza, Cobianchi, venne fatto discendere dal monte. Presso la località il Cristo, il delegato, dopo avere avuto da alcuni cittadini l’assicurazione che il garibaldino avrebbe mantenuto l’invito di presentarsi all’Ufficio di Pubblica Sicurezza, venne lasciato libero. Colain, poco dopo infatti, si presentò in Questura, dove però fu trattenuto in arresto e condotto in seguito presso le carceri di San Biagio. Il corteo a Monte Berico intanto entrava nel Santuario, dove il sindaco depose, ai piedi dell’altare, lo stendardo decorato, come “un eroe delle crociate”,  così scrisse lo stesso giornale “Visentin” .  Venne allora tenuta una messa solenne seguita dalle esequie su una cornice parata a lutto con un catafalco nel mezzo. Finita la messa, due uscieri municipali portarono fuori dalla chiesa una grande ghirlanda di fiori e la deposero davanti al monumento degli italiani. Il sindaco Zileri a fianco della bandiera, subito dopo, lesse un breve discorso ai caduti del ’48 . Il gruppo che circondava il sindaco applaudì ma l’applauso finì velocemente fra gli zittii. Il corteo poi discese tra una doppia fila di guardie e di carabinieri. Nel ritorno, l’itinerario venne modificato rispetto alla consuetudine, in quanto, il corteo, invece di entrare da Porta Castello e passare dinanzi al monumento di Garibaldi, entrò per la Barriera Eretenia. Arrivato in piazza Maggiore, con sempre pochi presenti, gli applausi si mescolarono ai fischi. La dimostrazione finì con il grido del ragioniere Venzo (fervente cattolico): “Viva il Sindaco, abbasso i suoi provocatori!”.  La rottura tra clericali e liberali-socialisti si era fatta evidente sotto gli occhi di tutti quel mattino, riflesso dello scontro in atto a livello nazionale che ruotava tra l’altro anche sul significato da attribuire all’eredità risorgimentale .
La sera stessa seguì, a dispetto della decisione presa dalla amministrazione, un secondo pellegrinaggio, ossia quello che si verificava tradizionalmente. Alle ore 18,30 le Associazioni militari e liberali con i socialisti trovarono già a quell’ora la piazza Maggiore affollata di persone. Il corteo era preceduto da diverse bande musicali, le quali suonavano gli inni del quarantotto e la marcia reale. Il corteo, raggiunta Piazza Duomo, vedeva le bandiere delle varie associazioni piegarsi davanti al monumento di Vittorio Emanuele. Il corteo proseguendo per la Barriera Eretenia aumentò per la presenza di molti cittadini. Anche la salita di Santa Libera era gremita. La processione inneggiava a Vicenza liberale, ai veterani, ai prodi caduti del ’48 con un “entusiasmo che nessuno ricordava più nella dimostrazione del X giugno ”. Arrivati sullo spiazzo del monumento dei caduti, le varie associazioni inclinavano con onore la propria bandiera deponendo corone tra l’entusiasmo degli accorsi. “Dietro l’imponente corteo, c’era la falange socialista, così ordinata e con un contegno così ammirabile da meritare gli elogi anche degli avversari”.  Tre socialisti salirono ad appendere alla statua una ghirlanda di garofani rossi. Mentre la ghirlanda, deposta dalla Giunta in mattinata, veniva strappata e tolta dal sito. Prese la parola il Presidente dei Veterani 1848-49, Negrin, leggendo un dispaccio del generale Pasquale Ottavio Framarin (1825-1902) che, all’epoca della difesa di Vicenza, aveva preso parte ai moti vicentini, come studente universitario. Intervenne anche il professor Buy, direttore delle scuole e dell’Istituto tecnico, reduce garibaldino.  Successivamente parlò il socialista Emilio Marzetto, scagionando i socialisti dalla grave accusa che costantemente veniva loro rivolta di essere nemici della patria e sovversivi. Aggiunse anche che l’Italia non aveva ottenuto quella libertà e quel benessere economico che forse i martiri del 1848 auspicavano.  Affermava che i caduti per la patria non erano colpevoli se l’Italia in quel momento era governata da un gruppo di persone “che si permette, per interessi di borsa, di mandare i nostri fratelli in Africa a fare schiavi altri popoli, di somministrare piombo e galera invece di lavoro e pane in Sicilia… ”. Mentre accennava a questi fatti, dichiarò che la presenza dei socialisti in quell’occasione era spontanea e non era nata in risposta alla provocazione clericale. Le sue parole, interrotte solo da pochi, vennero applaudite. Negrin invece sottolineava la mancata presenza della bandiera decorata e, con la sua voce ormai stanca per il peso degli anni, auspicava che la memoria di quei fatti gloriosi non morisse mai. Frequenti furono al ritorno le grida patriottiche e i canti, mescolate però a grida di “abbasso i clericali”. Il corteo, arrivato a Piazza Castello, davanti al monumento di Garibaldi, si entusiasmò al suono dell’Inno di Garibaldi. Poi proseguì per il corso Principe Umberto passando davanti al palazzo del sindaco Zileri con grida assordanti ed insistenti. Una volta giunti al municipio, la gente gridava affinché uscisse il sindaco dal balcone ma si venne a sapere che si era ritirato nella località Biron dove aveva le sue tenute. Anche il giornale “Visentin” sottolineava che la dimostrazione aveva assunto una diversa impostazione rispetto alle commemorazioni passate. La sera stessa, comunque, mentre si svolgeva la manifestazione “tradizionale”, un gruppo di giovani cattolici, al patronato Leone XIII, centro giovanile, disturbava la quiete dando colpi alla cancellata del recinto stesso e ai bandoni da petrolio e gridando: “W i clericali, abbasso i liberali e il socialismo, evviva il Papa Re”. Nei disordini di quel giorno c’era stato un solo arresto, quello di Colain, imputato “di violenza ad un pubblico funzionario nell’esercizio delle sue funzioni”. Nel processo, in data 11 giugno 1896, venne difeso da un avvocato Andrea Modulo, il quale chiese la libertà provvisoria, negata però dall’autorità di pubblica sicurezza. Fu dichiarato innocente nella medesima giornata, con una ordinanza della Camera di Consiglio del Tribunale, per inesistenza di reato, dopo aver trascorso però una notte alle carceri di S. Biagio . Il giorno successivo alla sua liberazione fu festeggiato da ben 110 persone in un locale chiamato “Da Belaria”, in località Barche.
L’atteggiamento della nuova amministrazione rispetto alla commemorazione del X giugno fu al centro della seduta consiliare del 12 giugno 1896. Il consigliere Bortolo Clementi (ex sindaco della città), a nome di altri, tra i quali spiccavano i nomi di Antonio Fogazzaro e di Fedele Lampertico, chiedeva spiegazioni alla Giunta per questi cambiamenti avvenuti. Clementi disse che non voleva provocare con la sua interrogazione “un voto di biasimo ma esprimere una penosa impressione” . Clementi faceva notare che la Giunta aveva voluto sostituirsi a quel “gruppo” che già da alcuni anni faceva celebrare una funzione religiosa privata alla mattina per i morti del 1848. Facendo questo, la nuova Giunta aveva alterato la stessa commemorazione della sera, unendo la funzione religiosa e quella civile in una sola. Il consigliere ammonì la Giunta dicendo che, prima di prendere decisioni in merito, avrebbe dovuto prima sentire il parere del Consiglio. Aggiunse infine che, essendo la “vita pubblica difficilmente scevra di errori”, la condotta intrapresa nella commemorazione da parte del sindaco e dei suoi assessori si poteva giudicare negativamente. Domandava inoltre, al sindaco e ai suoi, come pensavano di festeggiare il 50° anniversario. Il sindaco Zileri rispose che aveva attuato quel cambiamento alla commemorazione credendo di interpretare i sentimenti dei cittadini e che era troppo prematuro parlare di disposizioni da prendersi sino al 50° anniversario del 10 giugno 1848. Si diceva comunque disponibile a sottoporre in futuro la questione al Consiglio. Il consigliere Clementi accoglieva favorevolmente la risposta del sindaco, auspicando che rimanesse inteso, in futuro, di chiedere prima il parere al Consiglio e che non si fosse più ripetuto l’errore di unire le due commemorazioni.  Prese quindi la parola il consigliere Lioy. Disse che la commemorazione della Giunta aveva colpito e “commosso” tanta parte della cittadinanza e chiedeva al sindaco se quest’ultimo avesse presente la gravità dell’impegno assunto. Riteneva inoltre che il comune di Vicenza avesse bisogno di un sindaco, nato o presente da molto tempo in città, e che quindi capisse i reali sentimenti, le tradizioni, l’indole degli uomini della città berica. Qualità che non aveva l’attuale sindaco, in quanto Zileri non era vicentino e si era trasferito in città quando Drusilla Dal Verme Loschi cedette a Camillo Zileri – suo padre –  i suoi beni. Pur riconoscendogli alcune qualità, Lioy si domandava se il sindaco capisse veramente il significato di questa importante commemorazione. La commemorazione avrebbe dovuto andare oltre le fazioni politiche e infondere sempre tra il popolo “la moderazione e la calma ”.
La tensione tra clericali e le altre forze politiche cittadine sarebbe nuovamente però affiorata all’approssimarsi del 20 settembre del 1896, quando per la prima volta si sarebbe dovuto festeggiare l’anniversario della breccia di Porta Pia sotto l’amministrazione di una Giunta cattolico-intransigente. Nella seduta consiliare del 17 settembre di quell’anno, infatti, il consigliere Lioy, prendendo la parola, affermava che la commemorazione del 20 settembre era una consuetudine collaudata per la città di Vicenza.  Venuto a conoscenza che la Giunta non voleva festeggiare in nessun modo questa ricorrenza – decisione non sorprendente per Lioy visto il suo orientamento politico – chiedeva però alla Giunta se fosse capace di assumersi la responsabilità di quello che stava per compiere. Il sindaco Zileri rispose che, fedele ai suoi principi e alla sua Giunta, non intendeva onorare con dimostrazioni pubbliche questa data. Lioy prendeva atto di questa risposta augurandosi che “questa non dia luogo a manifestazioni diverse ”. Zileri rispose che intendeva evitare le questioni politiche: la sua Giunta era animata da due sentimenti - la religione e la patria -  che non sapevano disgiungerli professandosi cattolici e italiani, senza un vero e proprio concordato. Lioy invece concluse dicendo che “amando la patria non si  fa abiura alla religione ”. Zileri rese noto al Prefetto, la sua intenzione di non festeggiare il 20 settembre, dato che non c’era nessuna legge che obbligava le Rappresentanze Comunali a celebrare quella festa civile. Il Prefetto rispose a Zileri facendogli notare come questa decisione andasse contro i “sentimenti” della città e potesse provocare problemi di ordine pubblico: “La determinazione cui è venuta codesta Onorevole Giunta Municipale di astenersi da ogni festeggiamento nella ricorrenza del XX settembre corrente, interrompendo quelle consuetudinarie manifestazioni che in tale circostanza furono sempre osservate, mi ha prodotto un’impressione assai penosa, perché mi ha provato come codesta Giunta non valuta con la debita serenità i sentimenti della popolazione della Città di Vicenza fra cui esercita le sue funzioni; sentimenti che furono chiaramente espressi dalla stessa popolazione nel X giugno ultimo scorso. E siccome è pur dovere della Rappresentanza Municipale, non solo astenersi da ogni atto che possa dar luogo a turbamento della pubblica tranquillità, ma anche operarsi perché non vengano disordini, così riesce assai deplorevole la determinazione da essa presa, la quale provocherà uno scoppio del sentimento pubblico …. La S.V. ben comprende come in casi di dimostrazione popolare, che è prevedibile si verificherà, essendo ispirata da un sentimento altamente patriottico, l’Autorità potrebbe trovarsi imbarazzata a contenerla in limiti non pericolosi; e per tanto io non posso astenermi dal far presente alla S.V. la responsabilità che la Giunta si assume col contegno dalla medesima deliberato ”. Zileri si vide obbligato quindi a recedere dai suoi propositi.
La giornata del XX settembre vedeva sin dal mattino la bandiera tricolore esposta al municipio, negli uffici governativi e a molte finestre del Corso. Dopo una pioggia che durò fino alle quattro del pomeriggio, alla sera fu possibile procedere con i previsti festeggiamenti. Il corteo sfilava attorno al monumento di Garibaldi, dove era stata collocata alla base una ghirlanda di fiori . Dal corteo provenivano voci che inneggiavano al 20 settembre, a Roma e a Vicenza liberale. Grida e suoni ostili venivano rivolti verso la Giunta clericale. All’altezza del Duomo, qualcuno gridò verso il corteo provocando i presenti: “gridate che siete pagati!”. I carabinieri allontanarono l’individuo, evitandogli di essere aggredito dalla folla presente, dalla quale saliva il grido: “vigliacco provocatore! ”. In piazza del Duomo il corteo circondava il monumento di Vittorio Emanuele, e poi si recava in Piazza Maggiore, illuminata appositamente. La banda cittadina intonò la marcia reale e l’Inno di Garibaldi, ricevendo molti applausi. Dopo aver sostato davanti alla lapide dei caduti alla base della torre di piazza, il corteo si incamminò verso Ponte degli Angeli. Nella piazzetta omonima, dove delle targhe sui muri riportavano, sebbene non ancora deliberata, la dicitura XX settembre, fu applaudito un discorso di Antonio Colain, abitante del quartiere Trastevere vicentino . Quando nel ritorno arrivarono all’altezza di piazza dell’Isola, la folla volle cambiare itinerario e dirigersi verso la prefettura. Una volta giunti al palazzo prefettizio, il Prefetto Bondì, dopo essere stato chiamato con insistenza e con cenni di simpatia, si rivolse dalla finestra alla folla che lo acclamava. Il prefetto elogiò la cittadinanza vicentina dicendo che essa sapeva intendere il valore ed il significato della data che ricordava il compimento del riscatto degli italiani e allo stesso tempo compiangeva coloro che nel cuore non sentivano il bisogno di associarsi. La folla applaudì e salutò cordialmente il prefetto. Il corteo tornato in piazza Maggiore acclamò Paolo Lioy e, poi, attraverso via del Monte, tornò alla sede dei garibaldini, dove si sciolse con il massimo ordine. Sembrava che l’unità della città potesse coesistere, in un certo qual senso, in occasione per esempio della cerimonia per il monumento a Cavour che sarebbe stato inaugurato l’anno successivo. La Festa dello Statuto avrebbe coinciso con la cerimonia a Cavour.

Domenica 6 giugno 1897, alle ore 11, in occasione della festa dello Statuto , avvenne l’inaugurazione del monumento a Camillo Cavour. La cerimonia d’inaugurazione, alla quale non era stata data forma ufficiale, “assunse singolare imponenza per lo spontaneo e largo concorso di autorità e cittadini” . In contrà Cavour (nome datole fin dal 1867), dove venne scoperto il ricordo marmoreo, si raccolsero le autorità ed i cittadini. La contrà era imbandierata. Sotto al ricordo marmoreo, erano schierate con le rispettive bandiere le Associazioni dei Veterani, dei Garibaldini e dei Reduci. Tra le autorità spiccavano, tra gli altri, il Sindaco Zileri, il prefetto Bondì e il Procuratore del re Palladino. I pompieri in alta tenuta trattenevano e controllavano la ressa della folla. Quando si scoprì il busto , scoppiò un vivo applauso. Successivamente, il liberale Antonio Fogazzaro, a nome dei sottoscrittori, (concorsi alla spesa per il busto marmoreo in ricordo di Camillo Cavour opera dello scultore Napoleone Guizzon di Vicenza. Tra i vari sottoscrittori risaltano i nomi di Luigi Cavalli, Francesco Cabianca, Almerico Da Schio, Eleonoro Pasini, Bortolo Clementi) consegnò al municipio il monumento con un lungo discorso, lodando la figura dello statista piemontese. Si evince che i finanziatori erano rappresentati da liberali, progressisti e radicali. Senza la sua figura, soggiungeva “non ondeggerebbero qui oggi per la festa d’Italia quelle bandiere, non brillerebbero quelle assise, voi ufficiali dello Stato, di toga e di spada, non avreste la fortuna e l’onore di servire l’Italia se non ci fosse stato quest’uomo ”. Ma soprattutto Fogazzaro, di fronte alla giunta cattolica, mise in luce il ruolo di Cavour nel definire la natura laica dello stato italiano: “stette, nella questione ecclesiastica, a difesa della libertà civile, contro tutto che nel suo paese era più potente, l’alto clero (…) Roma è nostra ma non tutta. Non vi ha forza umana che possa riporvi sul trono il cadavere scomposto del governo antico; ma la Roma viva, eterna, che impera nelle anime, è tuttavia contro di noi né saremo compatti e forti fino a che sorgano barriere fra Roma e Roma (…) scoppiano dal suo labbro…le ultime parole «frate, frate, libera Chiesa in libero Stato». Ascoltiamole riverenti, ripetiamole alla folla, esse sono verità e via … innalziamo in Roma … un edificio di leggi ordinate a perfetta libertà religiosa e civile ”. Successivamente, rivolgendosi al sindaco Zileri, disse: “ questo ricordo… io lo affido a Voi… custoditelo con religiosa cura… rappresenta una vasta impronta dello Spirito di Dio ”. Il sindaco Zileri controbatté a Fogazzaro dicendo: “Sebbene i miei sentimenti e i miei principii non siano in tutto consoni a quelli ora espressi, ringrazio in nome del Comune ed accetto il dono fatto alla Città”. Anche nel clima unanime e concorde della Festa dello Statuto, si riproponevano le tensioni che attraversavano la città proprio intorno alla memoria del recente passato e che sarebbero scoppiate di nuovo qualche giorno dopo, durante la tradizionale commemorazione del 10 giugno.



3.4 – LA PROCESSIONE CLERICALE E LA CONTROMANIFESTAZIONE DEL 10 GIUGNO 1897

Il Consiglio comunale, il 31 maggio 1897 affrontava il tema inerente la celebrazione del 10 giugno. La Giunta cattolica proponeva di commemorare “il 10 giugno 1848 coll’intervento di una rappresentanza comunale, la mattina del giorno anniversario, a Monte Berico colla Bandiera decorata del Comune, per assistere ad una funzione religiosa e deporre una corona sul monumento ai caduti ”. Aperta la discussione, l’ex sindaco Bortolo Clementi ribadiva che bisognava distinguere le funzioni religiose da quelle civili, ma dichiarava comunque di votare a favore alla proposta della Giunta. Paolo Lioy disse che avrebbe parlato soltanto per una dichiarazione di voto e che “per la posizione che occupa nell’assemblea, com’è composta, non può né deve dare consigli”. Aggiunse rivolgendosi alla Giunta: “non so quale idea abbiate, della storia d’Italia; se non crediate che i morti del 1848 per l’indipendenza d’Italia sieno un episodio della gloriosa epopea del popolo italiano ”. Concluse dicendo che avrebbe dato voto contrario alla proposta della Giunta, non perché non approvasse la funzione religiosa, “ma perché la vorrebbe non ufficiale, scevra di ogni significato” essendo “le funzioni ufficiali una ipocrisia, una profanazione del tempio”. Il liberale Almerico Da Schio, associandosi a Lioy e Clementi, sottolineò però che non avrebbe fatto come quest’ultimo “che dopo aver mostrato la poca opportunità della proposta della Giunta finì col dichiarare di votarla, preferendo aspettare che altri, in Consiglio, parlassero”. Antonio Fogazzaro esordì asserendo che avrebbe dato voto contrario alla proposta della Giunta e presentava un suo ordine del giorno: “considerato che per conservare alla cerimonia religiosa il suo legittimo carattere e il suo altissimo valore riesce più opportuno lasciarne la iniziativa, come in passato, a cittadini privati”. Il sentimento pubblico, per quanto riguardava la commemorazione civile, non doveva quindi essere offeso, così proponeva la seguente delibera: “la Giunta si astenga per l’ufficio funebre e intervenga alla commemorazione civile nella forma consacrata da una consuetudine di trent’anni ”. L’ordine del giorno di Fogazzaro trovava l’appoggio di Clementi e di Da Schio. Lioy ribadiva che avrebbe votato contro la proposta della Giunta, ma pure contro quella di Fogazzaro “per non contribuire col suo voto che la bandiera sia portata sul Monte Berico senza unione di anime e per non dare poi sanzione a fatti che egli altamente disapproverebbe”. Il consigliere cattolico Navarotto, approvando invece la proposta della Giunta, aggiunse che quando era sindaco Clementi “un anno (era il 1876), si era fatta la commemorazione la mattina, senza che si verificasse alcun clamore”. Messo ai voti per appello nominale, l’ordine del giorno di Fogazzaro ottiene 12 voti favorevoli (i consiglieri liberali) e 20 contrari (i cattolici a cui si aggiungeva Lioy) e quindi veniva respinto. In seguito, invece, quello della Giunta veniva approvato con 18 sì da parte dei cattolici e 14 no da parte dei liberali .
Successivamente a questa decisione, nel pomeriggio del 6 giugno, mentre avvenivano i festeggiamenti per la festa dello Statuto, al Teatro Eretenio veniva indetto un comizio pubblico per protestare contro i deliberati della Giunta “che suonava come offesa alle tradizioni popolari ”. L’ex consigliere liberale Mazzoni aprì l’adunanza dicendo che questa avveniva contro la deliberazione del Consiglio sul 10 giugno e per avvisare “ai modi di dare solennità alla festa cittadina e patriottica ”. Sin da subito, iniziarono però le interruzioni da parte dei clericali accorsi, per la massima parte ragazzi e contadini. I clamori e la confusione, che avvennero all’interno della sala, portarono allo scioglimento dell’adunanza decretato dalla Questura. L’ 8 giugno, in un affollato Teatro Garibaldi, avvenne un altro comizio inerente sempre la questione dei festeggiamenti del 10 giugno e contro la delibera del Consiglio Comunale. Mazzoni, a nome della Presidenza liberale e anche delle Associazioni militari, proponeva di promuovere la commemorazione civile tradizionale alla sera. Antonio Colain, protagonista delle precedenti manifestazioni anticlericali, chiedeva che la bandiera decorata fosse portata in processione dal momento che sarebbero intervenute nella commemorazione della sera le Società Militari. Mazzoni gli ricordava che secondo il Regolamento approvato dal Consiglio gli ufficiali veterani del 1848-49 avevano il diritto di portare la bandiera, ma che la stessa bandiera necessitava sempre della scorta del Sindaco e degli assessori. Mazzoni inoltre disse che “il regolamento, a tutt’oggi, è imperfetto, ma chi l’ha compilato non avrebbe mai pensato che la Rappresentanza della città potesse muovere la bandiera senza il suo naturale corteo! ”. Cesare Zambelli, veterano vicentino ma vissuto per molti anni a Genova, informava che “la commemorazione della più grande giornata della sua storia” avrebbe visto al mattino il pellegrinaggio della Giunta e alla sera quello del popolo, ricordando quanto avveniva a Genova per celebrare la liberazione di Genova dagli austriaci avvenuta nel 1746 ”. La proposta del veterano provocò, nella sala, forti proteste, grida e zittii. Allora il veterano chiariva che, nella città ligure, “la Giunta va bensì al mattino, ma senza la bandiera; la bandiera che è del popolo perché dal popolo fu conquistata a prezzo di sangue, è portata da quest’ultimo” e che come a Genova, “la patriottica consuetudine dovrebbe essere rispettata anche a Vicenza”. L’assemblea quindi “alza un applauso generale, interminabile”. Successivamente, Mazzoni lesse l’ordine del giorno che protestava “contro una deliberazione che muta la festa santa del popolo in cerimonia esclusiva di un partito” e deliberava “di associarsi al pellegrinaggio stabilito dai Veterani, dai Reduci delle Patrie Battaglie e dai Reduci Garibaldini per le ore 19 del 10 giugno ”. A questo punto, Francesco Cabianca, presente in sala a nome dei socialisti, evidenziò che lui ed i suoi compagni avrebbero votato la protesta ma che sarebbero saliti al Monte Berico soli, questo “per non trovarsi uniti con quelli che per spirito di opportunità protestano oggi e non isdegneranno di unirsi domani coi clericali”. Mazzoni replicò che non era il caso di suscitare divisioni in questo momento e che bisognava dimenticare “ogni motivo di dissenso davanti all’alto interesse morale che si intende difendere, nel concetto di rendere onore ai morti del X giugno”. Cabianca però rimase fermo nelle sue intenzioni e rimarcò che i socialisti sarebbero saliti a Monte Berico, il 10 giugno, alle ore quattro e mezzo del mattino. Sebbene concordasse con le critiche ai moderati da parte dei socialisti, Colain disse che occorreva essere tutti concordi ed uniti in questo ambito per dimostrare “ che i padroni di Vicenza non sono i preti ma siamo noi ”. L’ordine del giorno dei liberali venne approvato “con una lunga ovazione ”. Mazzoni esortò quindi tutti i presenti a partecipare al pellegrinaggio della sera, “raccomandando la attitudine dignitosa dalla quale la manifestazione avrà un più alto significato”. L’assemblea si sciolse quindi ordinatamente.
Nel frattempo presso il Gabinetto Cattolico di lettura e ricreazione, si teneva una riunione dei cattolici, sempre intorno al tema della commemorazione del 10 giugno. Il comizio cattolico approvava “la deliberazione del Patrio Consiglio di commemorare i prodi caduti nelle gloriose giornate del 1848 con una funzione religiosa”. Il volantino che sarebbe stato distribuito successivamente continuava: (…) plaudono al contegno della Giunta che tutela…il sentimento cristiano e patriottico… e protestano, altamente nauseati, contro le provocazioni liberali…. (…)  Sopito ogni dissenso, voluto da una partigiana minoranza, tutti i cittadini si uniscano alla Rappresentanza e facciano corona al vessillo decorato, che…  risplenderà ai piè dell’altare”. Il comizio si concluse con applausi al Sindaco e alla Giunta e ai cattolici in generale . Si preparavano dunque tre distinte processioni – quella liberale, quella socialista e quella cattolica che era anche quella ufficiale del comune – per il 10 giugno, evidente manifestazione delle divisioni politiche che attraversavano la città. I cattolici dicevano che i caduti del 1848 “morirono con il nome di Pio IX sul labbro”. Lo scontro intorno al 10 giugno serviva ai cattolici per legittimare la recente conquista della città, che però proprio su questa vicenda perse buona parte del loro sostegno. I primi che salirono a Monte Berico, alle prime ore dell’alba del 10 giugno 1897, furono i socialisti. Un corteo, di circa 400 persone, partì dalla Barriera Eretenia, con la loro bandiera di partito, per salire il monte. Venne deposta una ghirlanda a tracolla della statua ai prodi italiani con la scritta: I socialisti vicentini ai caduti del 1848. Intervenne un portavoce del circolo che non polemizzò ma inneggiò ai patrioti caduti . Al ritorno, il gruppo rendeva omaggio alla statua di Garibaldi, facendo chinare il loro gonfalone rosso e nero. Rientravano quindi nella loro sede in località San Biagio, dove il gruppo si sciolse. Solamente a Monte Berico, era stato predisposto un servizio di pubblica sicurezza composto dal delegato Cobianchi e da tre carabinieri. Alle ore 7 di mattina, avvenne il secondo pellegrinaggio, quello “ufficiale”. La bandiera decorata usciva dalla Loggia del Capitaniato, portata dall’assessore Girotto e scortata dal sindaco Zileri. Quell’anno l’amministrazione aveva deciso di rinunciare alla presenza dei quattro veterani, provenienti dagli istituti di beneficenza. Grande lo spiegamento di forze dell’ordine dei carabinieri e di guardie della questura, oltre alla presenza di numerosi pompieri a “baionetta inastata”. Una visione ben diversa da quella delle commemorazioni precedenti . In piazza vi erano studenti, operai ed impiegati, ma anche contadini. Iniziarono le prime proteste e fischi quando apparve il corteo dei clericali. Ci furono anche i primi tafferugli tra liberali e clericali . All’altezza della statua di Vittorio Emanuele, in piazza Duomo, il corteo clericale vide sopraggiungere un gruppo che lo insultava e fischiava accompagnandolo così fino al Teatro Eretenio. All’altezza della salita di Santa Libera la banda cittadina che precedeva il corteo fu costretta a fermarsi da un altro gruppo di liberali. I liberali chiesero che la banda suonasse l’Inno di Garibaldi. Neanche le guardie di pubblica sicurezza riuscirono ad aprire un varco tra la folla. Anzi avvenne un secondo scontro fisico. Volarono pugni e vennero lanciati dei sassi. Uno di questi sassi ferì un componente della banda al labbro . Il direttore dell’istituto musicale e capo della banda, che nei giorni precedenti aveva dato delle predisposizioni alla stessa di ritirarsi in caso di disordini, accettò di intonare l’inno di Garibaldi. Soltanto da questo momento, tra le acclamazioni soddisfatte dei liberali, il corteo poté proseguire. Arrivati al Santuario, le cui porte erano chiuse e sorvegliate da pompieri, il corteo si fermò perché impedito ancora una volta nel suo avanzare. Nella confusione i liberali ed i clericali si trovarono a diretto contatto tra pugni e bastonate. La bandiera decorata ed il corteo clericale riuscì a fatica ad entrare nel Santuario. Nel corteo, dietro la bandiera, si era aggregato anche un veterano del 1848-49, Giuseppe Rizzetti, il quale fu colpito anch’esso. Venne celebrata la santa messa di requiem, celebrata da Domenico Formica . All’esterno intanto continuavano gli scontri verbali e fisici. Mentre si celebrava la funzione funebre, arrivò sul piazzale del monumento uno squadrone di cavalleria seguito da un drappello di fanteria; la truppa formava un quadrato dalla cancellata del monumento alla scalinata. I soldati furono accolti da grida “viva l’esercito e abbasso i clericali”. Dal santuario, uscirono due dipendenti municipali, che appendevano, tra i fischi, una ghirlanda sotto la corona di fiori rossi che, nel mattino, i socialisti avevano collocato sulla statua. All’uscita della bandiera dal santuario avvenne “un nuovo scoppio altissimo di proteste, e nuovi parapiglia ”. L’autorità di pubblica sicurezza, anche con il concorso della cavalleria e della fanteria, circondava la Giunta e la bandiera con lo scopo di difenderle e “lasciava che la gente si prendesse a bastonate ”. Il corteo discese dal monte preceduto dal drappello di fanteria, circondato da agenti e seguito dalla cavalleria. Il corteo, lungo la discesa, veniva nuovamente bloccato dai controdimostranti  che riuscirono ad ottenere che fosse suonato più volte l’inno di Garibaldi seguito dalla Marcia Reale e gli inni del 1848 che la folla accompagnava cantando . Intanto la ghirlanda della Giunta veniva tolta dal monumento e successivamente rotta e calpestata. I pezzi della ghirlanda municipale venivano innalzati su dei bastoni in segno di trionfo e, portati davanti alla banda, venivano successivamente bruciati. Il corteo come l’anno precedente non entrò per Porta Castello ma per la Barriera Eretenia. In prossimità della piazza Maggiore si richiese ancora l’Inno di Garibaldi e venivano bruciati i resti della ghirlanda municipale. La forza pubblica cercò di “fermare la fiumana del popolo irrompente, acclamante, fischiante ”. La folla cercò di appropriarsi della bandiera decorata che fu quindi portata in tutta furia al municipio: “La bandiera  è sospinta e si piega nell’ondate del popolo, e arriva sui gradini della loggia, la quale viene occupata dalla truppa e si accendono le ultime contese ”. In piazza rimaneva molta folla stipata davanti il municipio. Alla finestra del palazzo comunale si affacciava l’assessore  cattolico Bertolini, “certamente per osservare dall’alto una manifestazione di cui la responsabilità risale a chi non fece giusto conto del pubblico sentimento, lo insospettì, lo offese e finì coll’eccitarlo ”. Durante la manifestazione non venne operato alcun arresto.
La giornata di celebrazioni non era comunque ancora finita: in serata era prevista “La terza commemorazione, la popolare, promossa dalle associazioni militari, quella tradizionale insomma, riesce imponente ”. Oltre alle Associazioni di mutuo soccorso erano presenti: studenti universitari, quelli del ginnasio-liceo, delle tecniche e anche delle elementari. Quando arrivarono, le Società militari vennero salutate “con deferente rispetto ”e si formò il corteo. Quest’ultimo raggiungeva piazza Duomo attraverso via Muschieria, arrivando al monumento di Vittorio Emanuele, dove si aggiunse altra folla. Dal corteo, nel suo sfilare “si espandevano, acclamazioni agli inni della patria e grida ”. Dai poggioli gremiti delle case vicine sventolavano bandiere. All’altezza di via Carpagnon, dalla finestra dove abitava il pittore Minozzi, venne notata sventolare, una bandiera lacera e stinta. Era una bandiera del 1848. Alcuni del corteo salirono a domandargliela e la si pose davanti alla processione, al posto d’onore, acclamandola. La salita al Monte Berico proseguì tra grida e inni suonati da tre bande. Arrivati al monumento dei caduti del 1848, venivano deposte e gettate sulla statua, molte ghirlande. Per primo parlò il Presidente dei Veterani 1848-49, Negrin, che, dopo aver letto dei dispacci di ex combattenti, ricordò, come annualmente faceva, la battaglia del 10 giugno. Negrin, nel suo discorso,  disse che “di fronte a tanto imponente passato tutti i cuori dovrebbero essere uniti nel pensiero del bene della patria…ora agitata dalle sette, tanto che una mano settaria osò alzarsi contro la persona del Re (Umberto I) ” e terminò il suo discorso, utilizzando una poesia di Giacomo Zanella, rivolgendosi ai giovani: “Voi di alma e forza interi ”. A lui seguì il discorso del garibaldino, Rainerio Torresini  dei Mille, il quale ricordò i caduti per l’Italia, deplorò la mancanza della bandiera decorata, “caduta in mano dei nemici del progresso” ma “supplita dal cuore dei cittadini” e concluse augurandosi che “il popolo farà giustizia di questi ipocriti del patriottismo”. Successivamente parlarono  Antonio Colain, che “invocò la scomparsa del partito che ci «spadroneggia» ” ed il liberale ed ex assessore, Mazzoni, che disse: “il libero popolo vicentino, senza la scorta di baionette inastate e senza l’appoggio di squadroni accorrenti, ha potuto anche quest’anno dopo altri trenta su questo colle, rendere tributo ai prodi del 1848”. Aggiunse: “ è vero che a questo pellegrinaggio non veggo associata la rappresentanza legale della città; ma è bene che così sia, poiché la rappresentanza legale, fedifraga di una consuetudine trentennaria, qui sarebbe venuta a rendere ipocrito omaggio.. ”.
Il corteo, al suo ritorno in città, acclamava Garibaldi. La folla entrata da Porta Castello, alle ore 21,30 circa, rivolgeva al monumento di Garibaldi “un grande saluto”. All’imbocco di Corso Principe Umberto, le tre bande che accompagnarono il corteo “si tacquero”. Iniziarono i fischi e gli abbasso rivolti al Sindaco. Arrivati sotto al Palazzo del sindaco Zileri, le finestre erano aperte e così il portone, e dalla finestra di mezzo sventolava la bandiera nazionale. I dimostranti urlarono: “Via dalla finestra la bandiera nazionale, mettete fuori la bandiera dei Borboni (Zileri ne era imparentato), non la bandiera nostra ”. I carabinieri chiusero e bloccarono il portone del palazzo. Il sindaco Zileri, insieme ai suoi fratelli, scese nell’atrio. L’ispettore di pubblica sicurezza, Cacciatori, ed il delegato Alverà, insistevano a chiedere al sindaco di ritirare la bandiera nazionale dalla finestra, ricevendo però, da quest’ultimo, un deciso rifiuto. Alla fine le pressioni delle autorità di pubblica sicurezza, le quali dissero che non avrebbero fatto dare il terzo squillo (già due se n’erano suonati) se non quando si fosse ritirata la bandiera, convinsero Zileri. La bandiera fu levata tra applausi, acclamazione e fischi. La dimostrazione proseguì il suo cammino, dove si ricongiunse alle associazioni militari, che avevano intanto proseguito il percorso. In piazza Maggiore, davanti al municipio, ancora grida e sassaiola contro i vetri di Sala Bernarda (sala del Consiglio Comunale). L’autorità di pubblica sicurezza, non eseguì nessun arresto. Poi la folla si recò alla sede dei Garibaldini e “si sciolse con un ultimo saluto del cuore ai combattenti delle battaglie per la nostra libertà ”. Un numeroso gruppo di dimostranti, però, proseguì, verso la tipografia Rumor, dove si stampava il “Berico”. Molti carabinieri si erano già piazzati davanti alla tipografia, ma non riuscirono ad allontanare la folla. La folla gridava ingiurie e bestemmie all’indirizzo del “Berico” e dei cattolici. Quelli che riuscirono ad arrivare sul ponte Pusterla, lanciarono sassi, facendo andare in frantumi i vetri della tipografia. Un sasso aveva ferito un brigadiere dei carabinieri, mentre un altro fu tirato contro un delegato di pubblica sicurezza, ad un secondo carabiniere, invece, fu tolta la sciabola. La folla intanto andava ingrossandosi, e solo alle 23 circa, quando capitò una compagnia di linea, si suonarono tre volte gli squilli per sfollare la gente presente e si procedette a 17 arresti . Quest’ultimi furono condotti al carcere di S. Biagio.
L’eco dei fatti di Vicenza arrivò anche alla Camera. I deputati liberali Brunialti, Piovene e Cavalli presentarono, alla Camera dei deputati, un’interrogazione al Ministro dell’Interno. Il ministro Serena, sotto-segretario di Stato per l’Interno, rispose, il giorno seguente 11 giugno 1897: “Per sapere se abbia notizie sui fatti avvenuti a Vicenza stamattina in occasione della commemorazione del 10 giugno 1848”. Serena comunicò alla Camera che erano pervenuti dei telegrammi, che illustravano i fatti salienti della giornata. Il sotto-segretario precisò che “al Governo incombe un dovere, quello cioè di rimuovere le cagioni di questo malcontento ”. Cavalli prese la parola ringraziando Serena, auspicando l’intervento del Governo per porre fine, in qualche modo, all’amministrazione “reazionaria” di Roberto Zileri. L’interrogazione era palesemente contro la Giunta Zileri ed il governo ponderò su un eventuale scioglimento.
A Vicenza, intanto, nei giorni seguenti, la situazione rimaneva tesa. Alcuni componenti della famiglia Zileri vennero fatti oggetto di scherni e fischi, da parte di alcune persone.  Avvennero, inoltre altre dimostrazioni contro la tipografia Rumor e, in piazza Maggiore, fu acceso un falò e bruciate alcune copie del “Berico”. Sabato 12 giugno 1897, nella sala della Corte d’Assise, alla presenza del pretore Cantele, si svolse il processo contro i 17 arrestati, i quali erano stati accusati “di rifiuto  d’obbedienza per non essersi sciolti in seguito agli squilli di tromba, dati la sera del 10 giugno, innanzi alla tipografia del Berico ”. Il collegio della difesa era composto da avvocati che facevano parte, quasi completamente, del Foro liberale vicentino. Alcuni imputati dichiararono di aver partecipato alla manifestazione, spinti da sentimenti patriottici, altri per semplice curiosità ed infine vi era chi diceva di trovarsi nella via di casa. Tutti gli arrestati, ad eccezione di uno, erano incensurati. Le guardie ed i carabinieri confermarono le asserzioni degli accusati, giustificando però soltanto gli arresti con la circostanza che gli arrestati non si dileguarono quando furono suonati i tre squilli. Il delegato di pubblica sicurezza Cobianchi, che nell’occasione rivestiva il ruolo anche di Pubblico Ministero, chiese alla fine la condanna a sei giorni di arresto per ognuno degli imputati. L’avvocato difensore Rezzara ricordò il motivo per il quale ebbe luogo la controdimostrazione del 10 giugno. Biasimò, a suo dire, la “ferrea intransigenza clericale della giunta”, responsabile dell’esplosione “dei sentimenti dei veri vicentini ”. Ritenne che gli agenti di pubblica sicurezza non avessero svolto il loro dovere, in quanto avrebbero dovuto cercare di allontanare i presenti, prima di procedere agli arresti. Chiuse l’arringa, chiedendo l’assoluzione di tutti gli accusati “rei soltanto di amare la patria quale ce la diedero col loro sangue i nostri padri ”. Un altro avvocato della difesa, Bevilacqua, asserì che la Questura fu accusata dagli stessi clericali di essere stata nel mattino troppo benevola nei confronti dei dimostranti e forse per questo era stata molto zelante negli arresti, alla sera.
Il pretore Cantele accolse le ragioni dei difensori: non erano state seguite le prescrizioni di legge per lo scioglimento di quel gruppo di manifestanti, e per tanto non si ritenne di infliggere il reato di rifiuto di obbedienza a carico degli accusati. Lo stesso pretore ricordava i fatti che diedero origine alle dimostrazioni del X giugno “colle quali i vicentini vollero provare che non sono degeneri dai padri loro che pugnarono sul Monte Berico per la libertà ed unità della patria ”. Giustificò addirittura l’esplosione di questi sentimenti patriottici e assolse tutti gli imputati per inesistenza di reato. Gli arrestati furono immediatamente rilasciati. Il 14 giugno 1897, il quotidiano, “La Provincia di Vicenza”, informava della partenza per Roma, del sindaco Zileri, per conferire con Di Rudinì Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Interno. Il giorno 16 giugno, il sindaco e la giunta, dichiararono di dimettersi dal rispettivo ufficio e rassegnarono le proprie dimissioni. Il 20 giugno, con decreto reale, venne firmato lo scioglimento del Consiglio Comunale di Vicenza. Il prefetto di Vicenza, Bondì, scrisse a Zileri informandolo che avrebbe proceduto alla nomina, su incarico dello stesso ministro Di Rudinì, di un commissario prefettizio per l’ordinaria amministrazione del municipio, in attesa dell’arrivo del Regio Commissario Straordinario. Zileri passò le consegne ad Ettore Bertagnoni, già consigliere della prefettura, diventato commissario prefettizio. Il Commissario Regio Straordinario, Tito Sermanni, giunse a Vicenza la notte del 2 luglio. Già al mattino, prese possesso dell’ufficio municipale e fece pubblicare un manifesto nel quale si presentava alla cittadinanza . Il 19 dicembre 1897, si tennero le elezioni amministrative, che videro su 4.994 elettori aventi diritto al voto (poco più del 10% della popolazione) la partecipazione del voto di 3.511 votanti (il 70,30%). La più alta affluenza al voto dal 1866. Con questa maggiore affluenza si credeva di pervenire ad una congiunzione dei liberali di ogni sorta magari con gli stessi socialisti per formare un fronte unico contro il “pericolo” clericale, sebbene questa esperienza cattolica era stata irrisa dalla stragrande maggioranza della popolazione vicentina con conseguente commissariamento degli organi amministrativi. Invece il risultato fu diverso. Non si ebbe un accordo tra liberali e socialisti ma  si pervenne ad una Giunta progressista, guidata dal nuovo sindaco, Eleonoro Pasini , figlio di Valentino (1806-1864) convinto patriota e membro del Governo provvisorio di Vicenza nel 1848.
















Cap. 4
IL “GRANDIOSO” 50° ANNIVERSARIO DELLA DIFESA DI VICENZA 1848
4.1 –  IL 1898 NEL CONTESTO ITALIANO E CITTADINO
Il biennio che precedette il 1898 fu un periodo tormentato. Dopo la sconfitta di Adua, avvenuta il 1° marzo del 1896, la diffusa ostilità verso il governo che si era già manifestata durante il periodo della guerra, dilagò per il paese. Le proteste erano rivolte contro la politica di Francesco Crispi, considerato responsabile del peggioramento delle condizioni di vita della popolazione italiana. Crispi infatti aveva portato avanti una fallimentare politica coloniale, la quale veniva mal vista dalla piccola borghesia artigianale e anche da quella borghesia industriale non “direttamente collegata ai vantaggiosi profitti di guerra dell’industria pesante”  . Crispi, in seguito, si vide costretto a rassegnare le dimissioni. Il suo successore alla guida del Governo, Antonio Di Rudinì, uomo appartenente alla vecchia destra, si prodigò in una politica paternalistica. Questa politica però non riuscì a risolvere la crisi economica del paese. Il nuovo governo dimostrò sin da subito che, dietro l’apparente facciata liberale, c’era l’intento di colpire quei partiti di estrema sinistra (socialisti, repubblicani e radicali) e non solo, visti come forze destabilizzanti. Per reprimerle, non si utilizzavano più i mezzi come quelli dello stato d’assedio e dei decreti eccezionali, intrapresi dallo stesso Crispi, ma tramite direttive ai Prefetti e agli organi di polizia. Queste prevedevano, per esempio, la proibizione di riunioni e di conferenze o la chiusura dei circoli. Nel corso dell’anno successivo, nel 1897, il partito socialista, comunque, era in piena fase di espansione in tutta Italia. In quello stesso anno, dopo il fallito attentato a Umberto I, l’incalzante depressione economica fu accompagnata da molti scioperi nelle campagne del nord per regolamentare il lavoro e per l’aumento dei salari . Alla fine di quell’anno, lo scarso raccolto del grano e l’aumento del prezzo dei cereali con conseguente rincaro del pane portarono ad una accentuazione della crisi economica già latente e ad agitazioni popolari che avranno il loro culmine con i fatti di Milano del maggio successivo. Si aggiunsero all’inizio del 1898 altri fattori che determinarono l’aggravarsi della crisi, come la guerra tra Stati Uniti e Spagna per il possesso di Cuba e l’elevato dazio doganale sulle farine.
Anche a Vicenza, il prezzo del pane toccò “altezze insolite” e non accennava a diminuire. La Giunta Pasini, alla fine di gennaio 1898, presentava quindi al Consiglio una propria relazione che prevedeva, tra le altre cose, una diminuzione del dazio comunale su diversi generi, in primis sulla “farina di frumento, pane e paste di farina di frumento”. La diminuzione del dazio comunale doveva avere inizio con il 1° febbraio e durare fino al 30 giugno di quello stesso anno, oltre il limite previsto dal governo. Secondo la Giunta, solo alla fine di giugno, grazie al nuovo raccolto, il prezzo del grano poteva subire dei ribassi “da rendere più facilmente tollerabile il ritorno all’attuale misura di aggravio”. La proposta della Giunta veniva alla fine accettata all’unanimità . La decisione presa dal Consiglio comunale non riuscì comunque a migliorare la situazione, soprattutto a causa delle speculazioni esercitate dai fornai che si approfittavano della situazione per mantenere alto il prezzo del pane, delle farine e delle paste. Fu allora che l’Unione elettorale socialista vicentina, riunitasi la sera del 7 maggio 1898, elesse una commissione che aveva il compito di portare al sindaco “i bisogni della cittadinanza ” riguardo al “caro pane” e la richiesta di costituzione di un forno cooperativo. La Giunta Pasini, riunita il 10 maggio stesso, deliberava che le 2.000 lire, elargite come sussidio per l’avvio del forno popolare, fossero prelevate dalle 8.000 lire “poste dal Consiglio Comunale a disposizione della Giunta per festeggiamenti e beneficenza nel cinquantenario del 10 giugno 1848 ”. L’istituzione del forno cooperativo evitò che i disordini – che pure vi furono – non avessero gravi conseguenze . A fine maggio, comunque, il prefetto Bettioli decretò la sospensione del giornale socialista “Visentin”, il quale venne accusato di “continuare ad incitare all’odio di classe”. Inoltre, lo stesso prefetto attuò la sospensione del “ Berico”, la soppressione del periodico settimanale clericale “Donna Betta” e fece sciogliere il Comitato e i sottocomitati diocesani, tutti con l’accusa di essere antiunitari e per il particolare “pericolo che tale ideologia intransigente aveva nelle campagne ”.
4.2 –  L’ OMAGGIO AL XX SETTEMBRE E I PREPARATIVI PER IL 50° ANNIVERSARIO.
Nella seduta del Consiglio dell’11 marzo 1898, la Giunta Pasini proponeva, come ordine del giorno, di “ricevere in consegna” una colonna commemorativa  realizzata a ricordo del XX settembre ed eretta per sottoscrizione cittadina. In quella occasione, poi, la Giunta riproponeva l’ipotesi, già discussa durante l’amministrazione Porto, di intitolare la piazza degli Angeli e la attigua contrà Fontana Coperta, a ricordo del 20 settembre. Prima della discussione dell’ordine del giorno proposto dalla Giunta, il sindaco Pasini lesse una lettera che aveva ricevuto il giorno precedente da parte delle Associazioni militari consorelle (Veterani 1848-49, Reduci Garibaldini e Reduci delle Patrie Battaglie). Quest’ultime chiedevano che la colonna denominata 20 settembre fosse inaugurata, il 9 o 10 giugno, anziché il 14 marzo, in occasione quindi della festa per il 50° anniversario del 1848, come “degno coronamento dei festeggiamenti di quel giorno memorando ”. Il liberale Paolo Lioy disse che l’istanza presentata dalle associazioni militari doveva essere presa in seria considerazione, rammentando che “il cinquantesimo anniversario del 1848 per Vicenza aveva una importanza eccezionale ” e che quest’ultimo infondeva nei cittadini “quei sentimenti di patriottismo che non si erano mai cancellati”. Concluse il suo discorso affermando che inaugurando la colonna a giugno, in occasione del 50° anniversario della difesa di Vicenza, “si proverà come quest’ultima città onori i fasti del 1848, aggiungendovi il compimento dell’unità della Patria che avvenne il XX settembre 1870 ”. L’ex sindaco Bortolo Clementi era contrario all’intitolazione della colonna e della Piazza al 20 settembre facendo notare che, sebbene il 20 settembre fosse un giorno di lieto ricordo e che reputava la stessa Roma “capitale naturale e necessaria d’Italia”, il tema affrontato fosse assai “irritante” per i rapporti tra l’Italia e la Chiesa.  A suo avviso non ne guadagnava la fama patriottica di Vicenza, che trovava conferma nelle sue “belle pagine del 1848” e nei monumenti a Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour. Proponeva quindi che la piazza e la colonna fossero chiamati, o “dello Statuto” o “del 10 giugno”, o addirittura anche dell’Unità d’Italia. Il consigliere repubblicano Potente, invece, appoggiava la proposta della Giunta e ricordava che “la data del XX settembre fu sugellata dal miglior sangue italiano ”. Successivamente, Clementi proponeva che la piazza degli Angeli fosse chiamata 10 giugno. L’assessore liberale Mazzoni, però, chiese a Clementi di ritirare la sua mozione, in quanto, il nome 10 giugno, semmai, “dovesse essere dato alla via che conduceva a Monte Berico” Clementi aderì alla preghiera di Mazzoni. Chiusa quindi la discussione si mise ai voti l’ordine del giorno, modificato leggermente. Era stata accolta la proposta di Lioy di portare l’inaugurazione della colonna nel mese di giugno, durante le celebrazioni per il 50° anniversario. La proposta della Giunta fu messa ai voti separatamente. Per quanto riguarda il primo capoverso dell’ordine proposto dalla Giunta, quello cioè di ricevere in consegna durante le feste di giugno la colonna, fu approvato con voti favorevoli 23 e contrari 9. Lo stesso avvenne per la proposta di intitolazione della Piazza XX settembre che fu approvata con 23 sì e 9 no. Approvata con voti favorevoli 22 e 10 contrari, anche quella di denominare contrada Fontana Coperta, in contrà XX settembre. I 9 voti contrari erano quelli dei soliti cattolici, che nella discussione non proferirono parola.
Successivamente il 7 maggio, la Giunta Pasini portava in Consiglio le proposte per commemorare il 50° anniversario della difesa di Vicenza del 1848. In quell’occasione, la Giunta sottolineava che l’argomento trattato avesse già da parecchio tempo suscitato interesse negli animi della città di Vicenza e ribadiva che la ricorrenza fosse un “nobile documento d’alto patriottismo ”. La Giunta, però, voleva sottoporre all’ esame anche la somma da spendersi per l’evento. Occorreva rispettare le condizioni del bilancio, ma la ricorrenza del 1848 doveva anche avere un particolare risalto e lo stesso municipio avrebbe cooperato con il Comitato appositamente costituito per il 50° anniversario. Il Comitato era sorto già alla fine del 1897 e vedeva nella carica di presidente, Antonio Caregaro Negrin, già presidente dei Veterani del 1848-49. La Giunta proponeva quindi che fosse coniata e distribuita una medaglia commemorativa a tutti i combattenti superstiti della difesa di Vicenza nel 1848. L’amministrazione comunale prevedeva, inoltre, una solenne commemorazione al Teatro Olimpico e “più solenne che mai il pellegrinaggio pomeridiano a Monte Berico”, dove si sarebbero inaugurate due lapidi con i nomi delle schiere combattenti, venute in aiuto di Vicenza. Alla sera era prevista l’illuminazione della piazza e della Basilica, senza dimenticare, per l’occasione, la beneficenza. La Giunta quindi chiedeva al Consiglio di unirsi ai suoi propositi e di destinare per il festeggiamento, 8.000 lire . Aperta la discussione, il cattolico Girotto, sebbene si associasse all’idea della Giunta “di solennizzare il 50° anniversario del 10 giugno”, chiedeva a quest’ultima che la somma “da dispendiarsi” venisse ridotta a 6.000 lire, di cui 3.000 erogate a scopo di beneficenza. Il consigliere cattolico Rumor si associava alla proposta di Girotto, aggiungendo che le altre spese che si volevano attuare erano eccessive. Il sindaco Pasini sottolineò che la Giunta non sprecava denaro e che c’erano doveri e sussistevano dei particolari rapporti sociali e di affetto con altre città (per esempio con Venezia), da dover necessariamente mantenere e tutelare. Aggiunse che Vicenza doveva accogliere le rappresentanze e associazioni e che non accettava divisioni di spesa. Sottolineava inoltre il vantaggio che avrebbero avuto gli esercenti dall’affluenza degli ospiti nella ricorrenza del 50° anniversario del 10 giugno. Rumor allora gli controbatté che quando si festeggiò il 50° anniversario del 1848 a Padova e Venezia, il pane non era ad un prezzo così caro. Il consigliere cattolico Bottazzi, associandosi alla mozione Girotto, affermò che lo stesso “patriottismo non si misura con l’ammontare delle spese ”. Girotto proponeva quindi il suo ordine del giorno: “Il Consiglio autorizza la Giunta che per il 10 giugno 1898 siano erogate 3.000 lire per spese di festeggiamenti e di rappresentanze ed erogate 3.000 lire per beneficenza ”. L’ordine del giorno di Girotto, messo ai voti, venne però respinto (6 sì e 21 no).  Il sindaco Pasini quindi richiamava la votazione sulla proposta della Giunta che venne approvata (21 sì e 6 no). Dalle 8.000 lire stanziate, vennero destinate 2.000 lire, come sussidio per poter dare un solido aiuto alla realizzazione del forno cooperativo.


4.3 –  LE TRE GIORNATE PER RICORDARE LA DIFESA DI VICENZA DEL 1848.
Il 50° anniversario del 1848 cadeva in un anno, il 1898, in cui l’Italia era lacerata da una crisi politico-istituzionale che vedeva, in ogni avversario politico contrario al partito d’ordine, una minaccia sovversiva nei confronti dell’assetto governativo. Alla fine del secolo erano sorte delle formazioni politiche nuove che, mettendo in discussione, specialmente dopo la caduta del governo Crispi, la politica “restrittiva” e conservatrice del governo, erano viste come sovversive. Nel 1897, il politico liberale conservatore Sidney Sonnino aveva denunciato l’inefficienza delle istituzioni parlamentari. Secondo la tesi del Sonnino, la drammatica crisi imperante poteva essere risolta con l’applicazione alla lettera dello Statuto Albertino, attraverso una rigida interpretazione dello stesso e tornando ad una piena “restaurazione” dei poteri del sovrano. Lo stato liberale si sarebbe così salvato dalla duplice minaccia socialista e clericale. Sembrava quindi difficile immaginare di festeggiare i “fasti” del 1848, che portavano nel loro grembo gli ideali di libertà e di rivoluzione, in un anno in cui questi stessi ideali venivano visti con sospetto. Le celebrazioni del quarantotto risentirono dunque di questo clima di tensione. A Milano, durante i festeggiamenti per le “Cinque giornate”, la giunta clerico-moderata, volendo porre la festa sotto il segno dei Savoia e della concordia nazionale, creò un terreno di scontro con appartenenti ad altre fazioni politiche (associazioni legate al Tribunato operaio, repubblicani e socialisti). In uno dei giorni di festeggiamenti a Milano si snodarono così due differenti cortei . Anche a Bologna, sebbene le celebrazioni si svolgessero in agosto, quando la crisi parlamentare e del paese era ormai alle spalle, si trovò ugualmente la città divisa fra due tipi di festeggiamenti paralleli e alternativi . Rispetto alle commemorazioni del 10 giugno dei due anni precedenti, a Vicenza nel 1898 non ci furono invece disordini o particolari lacerazioni.
Il Comitato Generale per la Commemorazione del 50° anniversario della difesa di Vicenza nel 1848 annunciava, tramite un manifesto datato 21 maggio 1898, il programma per la commemorazione. Dopo aver preso accordi con lo stesso municipio, il Comitato, avvertiva che il 10 giugno sarebbe stato festeggiato, data la speciale ricorrenza, nell’arco di ben tre giornate (giovedì 9, venerdì 10 e sabato 11 giugno 1898). La Giunta comunale nella seduta del 24 maggio decise di invitare, per il 10 giugno, i sindaci dei comuni che avevano dato un contingente di combattenti alla difesa di Vicenza, assieme ad alcuni superstiti/veterani di quelle città. Inoltre, il Regio Provveditore agli Studi “accordava a dare vacanza” in tutte le scuole della provincia, per il 10 giugno, dando in questo modo la possibilità, a maestri e scolari, di partecipare alla commemorazione.
Il ricordo della difesa di Vicenza del 1848 si aprì quindi giovedì 9 giugno. “La Provincia di Vicenza” scrisse: “In Vicenza palpita oggi rinnovato il fervido entusiasmo del 1848. Nelle sue strade è un’immensa e festosa fioritura tricolore di bandiere…, di ghirlande di lauri, di mazzi di fiori, di scritte patriottiche… ”. In città erano giunti alcuni ex combattenti del 1848, come il settantenne Giovanni Pio da Treviso, il quale arrivò a piedi dalla sua città, vestito con la divisa dei Crociati, con al petto diverse medaglie, e venne accolto con deferenza dai cittadini e da un gruppo di giovani, ai quali raccontò le sue vicissitudini per la difesa della città berica  . Nelle vie cittadine, inoltre, si potevano scorgere garibaldini con la camicia rossa e altri reduci delle patrie battaglie. Mentre in Campo Marzio venivano inaugurate le gare e i giochi per la festa provinciale di Educazione Fisica, alle ore 10 iniziarono le celebrazioni con la consegna della bandiera   ricamata e donata dal Comitato delle Donne Vicentine  all’Associazione dei Veterani del 1848-49. La consegna della bandiera avvenne nella Loggia del Capitaniato alla presenza di molte associazioni e rappresentanze di Vicenza e di altre città. In piazza vi era anche una nutrita presenza femminile. Le operaie vicentine presenziarono con il vessillo della loro Associazione di mutuo soccorso. Il vessillo realizzato dal Comitato delle Donne Vicentine venne presentato da Costanza Pasini, moglie del sindaco di Vicenza, al Presidente dell’associazione dei Veterani vicentini, Antonio Caregaro Negrin. La maestra Annita Cevese, quindi, presentava i motivi di questo dono da parte delle donne vicentine. Disse che le donne volevano dare “un vessillo eguale al vessillo che cingeste allora, in difesa, di fuoco e di ferro; un segno della Vostra virtù…”. Seguirono poi evviva rivolti alle donne vicentine e ai veterani. Negrin, dopo aver ricevuto il dono, ringraziò e ricordò che le battaglie del 1848 e 1849 servirono da “eccitamento” alle successive battaglie intraprese negli anni seguenti, attuate per poter strappare “il sacro suolo della patria al dominio straniero ”. Le parole di Negrin vennero applaudite e la banda cittadina intonò la Marcia Reale. I presenti, quindi, assieme alle varie associazioni, si mossero dalla piazza dei Signori verso piazza XX settembre, dove sarebbe stata inaugurata la colonna dedicata alla presa di Porta Pia. Il corteo era composto dalla Giunta con la bandiera decorata e dalle varie Associazioni militari seguite da altre persone ed associazioni. Lungo il percorso, tra vie affollate e finestre addobbate, delle signore, insieme a ragazze e bambini, “gettarono fiori sui reduci delle battaglie dell’indipendenza ”. Arrivati alla piazza XX settembre, venne tolta dalla colonna la tela che la copriva e “partì un caldo saluto a quel simbolo, che si erge slanciato ad affermare il compimento dell’unità nazionale”. Le bandiere delle varie associazioni si disposero intorno alla base del monumento. Da una piattaforma, poi, parlò ad alta voce il consigliere repubblicano Gaetano Potente, il quale donò al sindaco, a nome del popolo e a nome dei sottoscrittori, la colonna stessa. Potente disse che “… da questa colonna, come dalle tombe e dai monumenti sorgono voci che sono moniti e additano doveri e infondono speranze per l’avvenire…” e ricordò “che la patria solo con la concordia si poteva renderla veramente grande, libera, forte, rispettata ed integra…”. Il sindaco rispose che avrebbe accettato in modo grato questo dono e assicurò che Vicenza ne sarebbe stata “gelosa custode”. Omaggiò inoltre gli abitanti del quartiere Trastevere vicentino per il loro amore per la patria e la loro ferrea determinazione nell’attribuire al loro quartiere lo stesso nome del rione romano. I due discorsi vennero applauditi “tra evviva al Trastevere, a Roma e a Trieste”. Alla base della colonna, l’epigrafe citava: “di fede incorrotta incorruttibile splenda questo simbolo di rivendicazione e di libertà per volontà di popolo eretto auspice Roma immortale 1898 ”. Il corteo ritornò al palazzo municipale, attraverso il Corso, dove si sciolse. Precedentemente si rese omaggio, in contrà Cavour, al busto dello statista piemontese. Alle ore 18, in piazza dei Signori, si riformò il corteo per procedere all’inaugurazione delle lapidi commemorative a Porta Santa Lucia e a Porta Castello. Il corteo era composto da molte associazioni, tra le quali spiccavano, oltre quelle dei veterani, quella dei Mille di Venezia e quella del Circolo Irredentista Trento e Trieste. Il corteo sfilò quindi per la contrada di Santa Lucia “dove nessuna finestra è senza un addobbo, per quanto modesto, di bandiere, di vasi, di tappeti e di vecchie stampe ”. A Porta Santa Lucia, venne inaugurata dal sindaco, con un breve discorso, la lapide, sotto la quale era appesa una ghirlanda . Il corteo, preceduto dalla banda cittadina, sempre attraverso il Corso, si recò a Porta Castello, dove sulla mura del Giardino Salvi, venne inaugurata la seconda lapide commemorativa . Anche qui il sindaco Pasini pronunciava un breve discorso ricordando che, se l’attacco da parte degli austriaci avvenuto il XX maggio a Porta Santa Lucia avvenne da oriente ed in pieno giorno, quello a Porta Castello avvenne in piena notte e da occidente, ma entrambi suggellarono e dimostrarono la tenacia e la forza dei difensori di Vicenza. Il corteo accompagnò la Giunta municipale fino alla gradinata della Loggia del Capitaniato. Il sindaco si rivolse quindi alle associazioni e ai cittadini presenti e li ringraziò per la loro numerosa presenza “in un pellegrinaggio patriottico sui luoghi delle due prime battaglie oggi consacrati da apposite lapidi ”. Rammentò quindi che il giorno seguente, essendo il 10 giugno, l’annuale pellegrinaggio a Monte Berico avrebbe assunto una forma ancor più solenne. Il corteo quindi si sciolse tra un ultimo applauso e con il suono della Marcia Reale. La giornata si concluse con una serata di gala, alle ore 21, al Teatro Comunale (futuro teatro Verdi), con l’opera “Bohème” di Leoncavallo. Il maestro Leoncavallo, che assisteva alla rappresentazione, fu acclamato più volte al proscenio. Furono inoltre chiesti ripetutamente, ed eseguiti fra gli applausi, la Marcia Reale e l’Inno di Garibaldi .
All’alba del 10 giugno dalle alture “che cinquant’anni or sono videro glorie di Vicenza ” furono sparate salve di artiglieria. La giornata proseguì con una messa in suffragio dei caduti del 1848 nel Santuario di Monte Berico, promossa da alcuni privati cittadini . In mezzo al Santuario si ergeva un catafalco architettonico, adornato di fiori e di fronde. Dai candelabri che circondavano il catafalco pendevano corone. Durante l’offertorio si suonò l’Ave Maria di Gounod. La messa venne celebrata dall’anziano Padre Mantovani, che cinquant’anni prima era presente nel convento del Santuario di Monte Berico, e che assistette “agli orrori del 10 giugno”, non ultimo la lacerazione del celebre quadro di Paolo Veronese . Verso le nove, intanto, molte Associazioni e Società, venute dalla provincia, insieme a bande musicali, si riunirono in Piazza dei Signori per portare la bandiera decorata di Vicenza ad incontrare, presso la stazione ferroviaria, la bandiera decorata di Venezia e le altre rappresentanze forestiere. Poco dopo “difficilissimo riusciva circolare per la Piazza, tanta ressa di popolo vi si accalcava ”. I pompieri avevano mantenuto sgombro un quadrato davanti al Palazzo Municipale. Le associazioni, le società, le bande e i rappresentanti dei vari municipi, si disposero “formando una lunga siepe” davanti al municipio. Alle nove e mezza, uno squillo di tromba annunciò l’uscita dal palazzo municipale della bandiera decorata di Vicenza. Il corteo che si formò procedette con ordine per contrà Cavour e lungo il Corso, fino a raggiungere la stazione. La bandiera decorata, seguita da quella dei veterani vicentini e da quelle delle altre associazioni militari vicentine, entrò sotto la tettoia della stazione. Le altre bandiere, che avrebbero dovuto aspettare sul viale della stazione, “come una febbre che invade i cuori, che fa dimenticare ogni disposizione di ordine”, si univano, “in un’ansiosa ressa”, insieme alle altre, sotto la tettoia. L’arrivo del treno fece scoppiare “l’entusiasmo e il fremito di immensa commozione”. La rappresentanza della città di Venezia era capeggiata dal sindaco Filippo Grimani. All’apparire della bandiera decorata di Venezia ed al suo successivo congiungersi con quella di Vicenza, tutti i vessilli si piegarono e si presentarono le armi. Dallo stesso treno discese anche la rappresentanza di Padova. Quest’ultima aveva una ghirlanda di fiori, portata da due guardie municipali, e un’altra corona offerta dalla Società padovana “8 febbraio”. Altre autorità, come per esempio quelle di Treviso, Forlì, Cornuda, Ravenna, San Severino Marche, arrivarono in città. Quelle che non poterono partecipare chiesero, al sindaco di Vicenza, di rappresentarle in quella circostanza. Emanuele Ruspoli, sindaco di Roma e figlio di Bartolomeo Ruspoli (1800-1872), che aveva partecipato alla difesa di Vicenza nel 1848, chiese a Pasini di rappresentare Roma. Le bandiere di Vicenza e Venezia, sul viale della stazione, erano una di fianco all’altra. Venivano precedute dalla banda cittadina e dalle ghirlande di Padova. Seguivano pure, tra le altre, quella dei veterani vicentini 1848-49, collocata al posto d’onore, quelle di Trento e Trieste, quella dei veterani di Venezia portata da Marco Cadorin, il quale aveva la “montura” che indossò il 18 marzo 1848 come capo squadra nella rivoluzione di Venezia, oltre le bandiere dei Mille ed altre. Scriveva il giornale “La Provincia di Vicenza” che “Il corteo è tale che mentre la testa ne tocca l’Arco di Porta Castello, l’ultima parte si è mossa appena dalla stazione”; “L’entrata in città fu un trionfo ”, il Corso era tutto imbandierato e inghirlandato. Sulle bandiere di Vicenza e Venezia, sui veterani, sulle associazioni militari e sulla folla cadeva una incessante pioggia di fiori, mazzolini, di foglie di rosa, di garofani e di magnolie. I reduci delle guerre per l’indipendenza “alzano i volti sorridenti e tendono le mani …”, uno di loro grida: Siamo a Vicenza! “Il corteo, tra continue ovazioni, entrava nella Piazza dei Signori, la quale  offre un altro spettacolo quale Vicenza non vedrà forse mai più ”. Le bandiere decorate, insieme ad altre, salivano quindi al municipio (Loggia del Capitaniato) , dove sullo scalone della stessa Loggia, venne scoperta la lapide dedicata al Comitato per la difesa di Vicenza . Il sindaco quindi pronunciava un breve discorso e ricordava che due membri del Comitato, i sacerdoti Giuseppe Fogazzaro e Giovanni Rossi, erano ancora in vita, ma che per la loro età, non avevano potuto presenziare alla commemorazione. Il sindaco “mandò a loro e agli estinti l’espressione della gratitudine perenne del popolo di Vicenza”. Alle ore 12, quindi, seguiva al teatro Olimpico, una solenne commemorazione. Nelle gradinate e nella platea prendevano posto, insieme agli altri, i sindaci e le rappresentanze delle varie città. Il sindaco Pasini si rivolse “tra un religioso silenzio” ai veterani. Dopo il sindaco, il segretario comunale Antonio Ciscato tenne un lungo discorso in onore dei corpi combattenti per la difesa della città di Vicenza nel 1848. Il presidente dei veterani vicentini, Antonio Caregaro Negrin, presa la parola, ringraziò per i discorsi fatti a nome di tutti i veterani e rinnovò “Evviva all’Italia, alla sua Unità e Indipendenza”, ricordando che queste erano le parole che echeggiavano “nel cuore di tutti gli italiani nel memorando 1848 ”. Nel suo discorso poi condannò “quei partiti sovversivi d’ogni specie i quali mirerebbero a disfare l’edificio nazionale eretto con tanti sacrifici… e che vorrebbero ricondurre l’Italia a quei tristi tempi in cui essa era sotto lo straniero e i Sanfedisti!...”. Negrin infatti con le sue parole criticò i partiti sovversivi (in special modo quello clericale) che minavano la stabilità dell’assetto politico di quell’ultimo periodo di fine Ottocento. Ricordò poi ai giovani l’importanza dell’amore per la patria, per la sua unità e per la sua storia. Fuori programma, ma invitati a parlare dallo stesso pubblico del teatro, furono i liberali Paolo Lioy e Antonio Fogazzaro che ricordarono, con brevi parole, l’amore per la nazione e le imprese attuate per poterla finalmente realizzare. Entrambi furono applauditi caldamente. Quando cessarono gli applausi, vennero suonate la marcia reale e l’inno di Garibaldi, quest’ultimo sempre richiesto dalla popolazione durante le varie celebrazioni. Venne quindi eseguita la cantata del maestro Nenci, della quale si richiese e venne concesso il bis.
Alle ore 18, mentre il corteo che si era formato in piazza Vittorio Emanuele (attuale piazza Matteotti) si muoveva verso Piazza dei Signori, per accogliere le bandiere decorate, cominciò a piovere. Il corteo “è una selva di bandiere, un frastuono lieto di inni patriottici, una massa nera, brulicante di popolo ”. Il percorso intrapreso seguì l’itinerario consueto: Muschieria, Piazza del Duomo (dove sfilò davanti al monumento di Vittorio Emanuele II), e a Monte Berico per contrà Carpagnon. Santa Libera e la salita del Monte “erano zeppe di popolo, che la pioggia sempre più fitta non tratteneva dal prender parte alla dimostrazione”. Sulla spianata del Monumento ai prodi del 1848, le autorità e le rappresentanze si riunirono in uno spazio che era delimitato da una cancellata. Nel monumento furono deposte moltissime ghirlande di lauro e di fiori. Ai lati vennero scoperte le due lapidi sulle quali erano incise i nomi dei corpi combattenti nella battaglia del 1848. Dopo i discorsi fatti dal sindaco Pasini e dal presidente dei veterani, Negrin, Antonio Colain, a nome del Circolo Irredentista, che gli aveva dato l’incarico, affidò, allo stesso sindaco, la ghirlanda di bronzo in nome di Trento e Trieste, esortando la folla a gridare evviva a quest’ultime. Seguirono altri discorsi di stampo patriottico con nuovi incitamenti all’Italia, a Vicenza e ai caduti del 1848. Si discese poi da Monte Berico sotto una pioggia sempre più insistente. Il corteo rientrò in città attraverso Porta Castello, percorrendo il Corso e arrivando al municipio. Malgrado il tempo avverso, la città venne illuminata con profusione di torce, di palloncini e di luminarie alla veneziana e si udiva il suono di bande che intonavano inni patriottici. Alcuni edifici avevano “un’abbondante illuminazione a gaz ” mentre riflettori elettrici dalla torre di Porta Castello proiettavano potenti fasci di luce sul Corso e in Campo Marzio. L’accensione dei fuochi artificiali, che era prevista per le ore 21, venne rinviata ed effettuata invece nella serata di domenica 12 giugno.  Numerose persone gremivano gli esercizi pubblici e i caffè dando “un’idea di quello che sarebbe stata la fine della memoranda giornata se il tempo non l’avesse guastata”.
La terza giornata, quella di sabato 11 giugno, iniziava con la distribuzione, ai veterani del 1848, della medaglia commemorativa fatta coniare dal municipio. Inoltre, sempre per la mattinata, erano state organizzate delle visite turistiche ai monumenti di Vicenza e nei luoghi e “posizioni dei fatti d’armi” . In quelle stesse giornate, inoltre, veniva ristampato (la terza edizione) e pubblicato, il libro “Il quarantotto a Vicenza” dell’avvocato e storico Vittorio Meneghello. A Vicenza venivano inoltre murati anche altri ricordi marmorei del 1848. Giannettore Bollina, ad esempio, fece murare nella facciata della sua casa in Borgo S. Felice una bomba che era caduta in quel luogo il 24 maggio 1848, mentre fuori Porta Monte, in una casa del conte Valmarana, venne murata una lapide in ricordo del vicentino Luigi Da Porto , che in quello stesso luogo morì il 10 giugno 1848. Ritornando alla mattina dell’11 giugno 1898, come abbiamo detto, venne consegnata ai veterani vicentini e non, che presero parte alla difesa di Vicenza, la medaglia commemorativa del cinquantesimo anniversario. La cerimonia avvenne sotto l’atrio della Loggia del Capitaniato. Presenti, oltre al sindaco e agli assessori, gli altri sodalizi militari. Il sindaco Pasini disse che considerava questa “la più bella e commovente parte della commemorazione del 10 giugno e ringraziò i veterani, in nome di Vicenza, delle sante e valorose loro azioni ”.  Successivamente arrivò anche il prefetto Bettioli ed il sindaco lo presentò ai veterani, sottolineando come anche il governo partecipasse alla festa di Vicenza, attraverso l’intervento del suo rappresentante. La cerimonia si concluse con caldi evviva ai veterani e la banda cittadina intonò la marcia reale. Agli altri veterani del 1848, che non poterono partecipare alla commemorazione o che non avevano ancora presentato un documento che provasse la loro effettiva partecipazione alla difesa di Vicenza, venne assicurata la consegna della medaglia e del relativo diploma. La medaglia era in bronzo e raffigurava, da un lato il monumento dei caduti di Monte Berico, e, dall’altro, lo stemma di Vicenza circondato da rami di alloro, che si intrecciano a una targa con la data dell’anniversario. Da parte del Governo, tramite il prefetto di Vicenza, e sulla base di una rendicontazione del Comune degli aventi diritto al sussidio, vennero inoltre elargite e distribuite 2.000 lire a favore dei veterani poveri di Vicenza e provincia. La giornata si concluse con l’illuminazione della Basilica Palladiana e della Torre, a bengala rossi e verdi e con suoni musicali nella stessa piazza, mentre al teatro Comunale veniva eseguito uno spettacolo d’Opera.
Il 1 luglio 1898, il Consiglio comunale di Vicenza si riuniva per la prima volta da inizio maggio. In quell’occasione, il consigliere Lioy ringraziò la Giunta ed in special modo il sindaco, asserendo di farsi interprete anche del sentimento dell’intera cittadinanza per aver provveduto ad organizzare “un degno 50° anniversario”. Il consigliere cattolico Bottazzi ringraziò la Giunta e il sindaco per i festeggiamenti, ma sottolineò che i suoi plausi erano per tutto ciò che riguardava la commemorazione in ricordo del 1848 e non per altre cose (evidentemente per i cattolici l’inaugurazione della colonna in onore al XX settembre rimaneva un tasto dolente). Per “consacrare” ulteriormente l’importanza che ebbe il 1848 a Vicenza e la giornata del 10 giugno, durante il consiglio comunale del 18 ottobre 1898, l’assessore Mazzoni proponeva al consiglio di denominare Viale 10 giugno “la salita da Santa Libera alla Villa Margherita, la quale ha, in tutta la sua lunghezza, memorie dei fatti che si svolsero in quel momento glorioso ”. La sua proposta venne approvata ad unanimità. In quella stessa occasione, poi, Mazzoni, che aveva proposto “di chiudere il ciclo del patriottico pellegrinaggio del X giugno, limitandone la ripetizione ad ogni decennio”, ritirò la sua mozione. A questa determinazione era giunto dopo “che seppe la sua idea contraria al desiderio dei veterani, dei quali egli aveva argomento di supporre d’averne interpretato il sentimento ”. Il sindaco Pasini aderì al pensiero di Mazzoni e l’annuale processione e celebrazione del X giugno p




CONCLUSIONI

L’amministrazione Pasini era riuscita a mantenere un precario equilibrio tra le forze politiche in occasione dei festeggiamenti del 50° e così non si ebbero scontri rilevanti durante quelle celebrazioni. Però il dibattito intorno ad altre ricorrenze patriottiche rimase vivace, come quello che si sviluppò in occasione dell’anniversario del XX settembre. Nel 1900, di fatto, la maggioranza era tornata ai cattolici e ripresero gli scontri tra cattolici e liberali (sostenuti ora anche dai socialisti) intorno alle celebrazioni. Nel luglio 1903, in occasione della morte del pontefice Leone XIII, si tenne in Comune la commemorazione del Papa defunto. Il vestito a lutto portato dai cattolici aveva suscitato le “ire” dei socialisti che lo vedevano come un segno di provocazione. In quell’anno, il sindaco conservatore Marzotto, a capo di una amministrazione cattolica, si recò presso il Teatro Verdi in occasione dei festeggiamenti della Presa di Roma. La sua partecipazione provocò la reazione della folla che lo invitava ad andarsene al grido di “Fuori il Sindaco”. Minori divisioni e contese provocava il 10 giugno che continuò ad essere celebrato durante il periodo fascista. Nel secondo dopoguerra, per il 100° anniversario del 1848, il ricordo glorioso venne congiunto alla Resistenza al nazifascismo, considerato come “Secondo Risorgimento”. Il 10 giugno 1948, la doppia ricorrenza fu l’occasione per rammentare sia i caduti del 1848 sia i partigiani periti durante il secondo conflitto mondiale. Vicenza visse in quel giorno una pagina di rievocazione storica, tra i canti degli alunni delle scuole elementari che intonavano l’ “Addio mia bella addio”, nota canzone originaria proprio del 1848.




























FONTI D’ARCHIVIO

Archivio di Stato di Vicenza, Manifesti e Proclami 1848-49
Archivio Provincia di Vicenza, Spese per il 50° anniversario 1848- Faldone 1898.
Archivio Storico del Comune di Vicenza, 50° anniversario difesa Vicenza del 1848
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Celebrazione Centenario 1848
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Commemorazioni 10/06/1848
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Commemorazioni patriottiche
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Commissione Cose Patrie
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Monumento Monte Berico (austriaci)
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Monumento Monte Berico
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Vicentini caduti per l’Indipendenza
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Visita Vittorio Emanuele II nel 1866
Archivio Storico del Comune di Vicenza, Raccolta in volumi degli Atti del Consiglio” Annate dal 1866 al 1898
Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza, Raccolta Giuseppe Bacco
Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza, Raccolta Luigi Cavalli


PERIODICI

«Giornale della Provincia di Vicenza»: annate 1871, 1880
«Giornale di Vicenza»: annate 1866-67
«Giornale Visentin»: annate 1895-97
«Il Berico»: annate 1882, 1895-97
«L’Amico del Popolo»: annata 1882
«L’Osservatore Veneto»: annata 1871
«La Provincia di Vicenza»: annate 1885, 1887, 1892-93, 1895-98, 1901, 1905, 1908, 1911
«La Riscossa»: annata 1896
«La Sveglia»: annata 1869
«Vicenza Liberale»: annata 1898


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