La donna operosa ha sempre molto..tempo libero (proverbio trentino)
venerdì 30 dicembre 2016
venerdì 23 dicembre 2016
mercoledì 21 dicembre 2016
mercoledì 7 dicembre 2016
Mio figlio Loris Liotto e' Dottore in Storia - con la sua tesi: "Nerone visto da Gerolamo Cardano"
Tesi di Laurea
Nerone visto da Gerolamo Cardano
Laureando: Loris
Liotto
Indice
I. Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus
ORIGINI
2.
LA MORTE DI CLAUDIO E L’ASCESA AL POTERE
3.
IL PRINCIPATO
4.
LA MORTE DELLA MADRE AGRIPPINA
5.
IL TERRIBILE INCENDIO
6.
LA CONGIURA DI PISONE
7.
LA MORTE DI POPPEA E IL VIAGGIO IN GRECIA
8.
IL RITORNO A ROMA E LA FINE
9.
IL DOPO NERONE
10.
LA “DAMNATIO MEMORIAE”
II.
Le fonti
storiografiche: i detrattori e la leggenda “nera” su Nerone
1
TACITO
2
SVETONIO
3
CASSIO DIONE
4
GLI AUTORI CRISTIANI
III.
Gerolamo Cardano
1
VITA E OPERE
IV.
Il Nerone
“Moderno” nell’opera di Gerolamo Cardano “Neronis Encomium”
1
IL CONTESTO
2
NERONE E I CRISTIANI
3
NERONE A CONFRONTO CON GLI ALTRI PRINCIPI
4
NERONE TRA RIFORME E DECISIONI
Conclusioni
Bibliografia
CAPITOLO
PRIMO
Nero
Claudius Caesar Drusus Germanicus
1- LE ORIGINI
Lucio Domizio Enobarbo è il vero nome di colui che passerà alla storia
come Nerone. Gli fu posto il nome di Lucio come richiedeva la tradizione della gens Domizia, nella quale, da
generazioni ormai, i maschi, di padre in figlio, si chiamavano alternativamente
Lucio e Gneo.
Il piccolo Lucio nacque nel dicembre dell’anno 37 ad Anzio, a pochi
chilometri a sud di Roma. «Quella dei Domizi Enobarbi era una gens assai in vista già nella Roma
repubblicana – molti suoi esponenti nei due secoli precedenti avevano ricoperto
la carica consolare - che amava far risalire il proprio nome ad un episodio
avvolto da un'aura “mitica”: si raccontava infatti che un Lucio Domizio avesse
un giorno incontrato due fratelli dal maestoso portamento che gli annunciarono
un'importante vittoria romana di cui né il senato né il popolo avevano ancora
avuto notizia. I due, riconosciuti poi come i Dioscuri, Castore e Polluce, per
dargli un segno della loro divinità, gli accarezzarono la barba, che da nera si
fece d'improvviso rossa, del colore del bronzo: da quel momento l'intera
discendenza avrebbe assunto il cognome di Enobarbi, dalla barba color del bronzo».[1]
Questi venne adottato in seguito, cioè nel 50 d.C., all’età di tredici
anni dall’ Imperatore Claudio, il quale si era unito in matrimonio con
Agrippina, madre di Lucio. Precedentemente Claudio era sposato con Messalina
con cui concepì due figli: Ottavia e Britannico. La terza moglie Messalina venne
fatta uccidere dallo stesso Imperatore dopo
che si era congiunta in nozze nel 48 con il patrizio Gaio Sileo, il quale
aspirava al trono imperiale. Agrippina ricevette il titolo di AUGUSTA. La
denominazione di Nerone, il cui nome completo è NERONE CLAUDIO DRUSO GERMANICO,
gli sarebbe stata attribuita soltanto in questa circostanza.
2- LA MORTE DI CLAUDIO E L’ASCESA AL POTERE
Nel 53 d.C. sposò Ottavia figlia di Claudio, la sorella acquisita.
Claudio morì, «durante la notte tra il 12 e il 13 ottobre del 54 d.C., nel
corso di un lauto banchetto accompagnato da uno spettacolo di pantomimi, dopo
aver accusato un forte malore». Le fonti attestano che Agrippina stessa, dopo
essersi procurata un potente veleno, l’avrebbe versato su un piatto di funghi e
lo fece servire a Claudio.
«I pretoriani comandati dal prefetto Burro, devoto ad Agrippina,
salutarono Nerone - diciassettenne – come nuovo Imperatore. Nerone fece il suo
ingresso in Curia nelle prime ore del pomeriggio del 13 ottobre. Le parole d’effetto
con le quali si presentò ai padri gli erano state dettate da Seneca, suo
precettore, la cui abilità di rettore risaltava ancor più evidente in bocca a
un giovane che, unico fra i principi sinora saliti al potere, tutti sapevano
maggiormente incline alle arti che al virtuosismo oratorio, tanto da dover
affidare ad altri la composizione dei propri discorsi. Egli rassicurò
innanzitutto l’assemblea sulla propria volontà di garantire una transizione
pacifica, senza ritorsioni o vendette, contro chi avesse collaborato con il
potere durante il principato di Claudio: da Claudio, d’altra parte, intendeva
prendere le distanze in modo deciso, promettendo che il proprio governo avrebbe
tenuto nettamente distinta la sfera degli interessi privati da quella delle
attività pubbliche. E il senato gradì, ratificando il potere del principe: il
testo del discorso venne addirittura inciso su una stele d’argento, perché,
quasi un impegno scritto a futura memoria, come ci racconta Dione Cassio nella
sua Storia romana (LXI 3), esso
venisse letto ogni qualvolta una coppia di consoli fosse entrata in carica».[2]
Il fratellastro Britannico, che aveva ricevuto questo soprannome per
ricordare la spedizione del padre Claudio in Britannia e, sebbene fosse il
legittimo erede al trono, venne soppiantato dalla figura di Nerone in quanto
venne fatto avvelenare. La stessa Agrippina aveva già tramato alle spalle del
figlio Nerone servendosi del figliastro Britannico e perciò quest’ultimo nel 55
venne eliminato su ordine di Nerone.
3- IL PRINCIPATO
Del regno di Nerone le fonti antiche hanno preso in esame un primo
quinquennio felice (54-58) durante il quale il principe avrebbe regnato sotto
l’egida positiva dei già citati Burro e Seneca. L’anno 58 potremmo dire che
segna il cambio di rotta: da quella data, infatti, Nerone avrebbe impresso
un’impronta autocratica alla organizzazione del potere, dettata dal desiderio
di soddisfare i suoi più reconditi capricci. Nella realtà è invece più giusto
riconoscere, in quel mutamento, un’evoluzione di tendenze già presenti
nell’inizio del principato di Nerone. Già nel 56 infatti sostituisce i questori
preposti all’erario con prefetti di sua nomina; nel 58 abbiamo il progetto di
abolire le tasse indirette (ma viene dissuaso dal senato) e prende
provvedimenti che colpiscono i pubblicani, dimostrando quindi di voler seguire
una politica filo-popolare e contraria agli interessi delle classi egemoni.
Sempre nel 58 si lega a Poppea Sabina che era già moglie di Marco Salvio
Otone, il quale viene inviato come legato in Lusitania.
«La nuova amante Poppea, proveniente questa volta da una famiglia assai
facoltosa e di nobili ascendenti, proprietaria di ricche residenze nell’area di
Pompei, era donna che curava in modo maniacale il proprio aspetto fisico –
Dione Cassio, nella sua Storia romana
(LXII 28), racconta addirittura che ogni giorno faceva il bagno nel latte di
cinquecento asine per curare la pelle – ed era priva di qualsiasi scrupolo
morale. La relazione con Poppea non poteva naturalmente raggiungere la
consacrazione ufficiale, finché perdurava il matrimonio con Ottavia, per
rompere il quale l’Imperatore doveva affrontare una considerevole serie di
ostacoli. Innanzitutto Agrippina, la quale, pur relegata in posizione
marginale, si opponeva fieramente a tale soluzione. Ma c’erano poi anche Seneca
e Burro che dissuadevano il principe dal troncare un legame su cui si fondava
la legittimità del proprio potere. Il principe non si risolse per il momento a
concludere la relazione ufficiale con la figlia di Claudio».[3]
4- LA MORTE DELLA MADRE AGRIPPINA
Su istigazione di Poppea, l’anno successivo e precisamente nel 59, fa
uccidere la madre Agrippina.
«Gli Annali tacitiani (XIV 5)
ambientano la scena in una “tranquilla notte stellata”, con il mare liscio come
l’olio: gli dei stessi – commenta lo storico con sottile ironia – sembrava
fossero intervenuti per rendere più evidente a tutti il crimine che stava per
essere commesso».[4]
Agrippina aveva avvelenato
Claudio, come ci dicono le fonti e che ne attestano concordemente la
responsabilità dei fatti, e pensava così di essere lei a poter governare
l’Impero. Nerone aveva progetti diversi: Agrippina doveva essere così eliminata.
Una nave speciale, con rematori speciali, fu inviata a prelevare la madre che
doveva partecipare ad una festa nella baia di Napoli.
La nave avrebbe dovuto spaccarsi
e i rematori erano stati istruiti affinché Agrippina non dovesse tornare viva. Ma
la trireme non si spezzò in due; c’erano enormi pesi sulla tettoia in legno
sopra il sedile di Agrippina. Al momento giusto sarebbero piombati su di lei
sfondando la tettoia, l’avrebbero uccisa e avrebbero rotto la base della nave,
facendola affondare. Questo è quanto sarebbe dovuto accadere ma quando i pesi
caddero, dall’alto, colpirono a morte uno degli accompagnatori ma non la donna,
casualmente protetta dalle spalliere del letto su cui era distesa. Si inceppò anche
il meccanismo che doveva far spalancare la chiglia facendo precipitare
Agrippina in mare. I marinai a bordo, invece, ignari di tutto e presi dalla
foga del momento, manovrarono in modo da fare inclinare la nave su un fianco,
facendo così scivolare lentamente in acqua la donna.
Nella totale oscurità Agrippina,
ferita appena ad una spalla, nuotò sino ad una barca di pescatori, che, dopo
averla tratta in salvo, la condusse sana e salva a riva. Nerone che nel
frattempo era nella sua villa di Baia, fu informato del fallimento
dell’operazione e si consumava al pensiero che Agrippina una volta scoperti i
suoi piani, avrebbe ora denunciato apertamente il tentato omicidio.
Agrippina rimase qualche ora a ripensare
sull’accaduto, giungendo ben presto alla conclusione che dietro l’incidente non
potesse che nascondersi un criminale disegno del figlio Nerone. Decise allora
che l’unica strada percorribile era quella di fingere di non aver capito
alcunché: inviò quindi un messo a Nerone annunciandogli di essere scampata alla
morte per puro caso. Le guardie mandate da Nerone nella stanza da letto della
villa di Agrippina, la sorpresero poi da sola ed «incredula che l’odio del
figlio nei suoi confronti potesse giungere sino al punto di ordinare l’inaudito
misfatto. Colpita prima alla testa, ella cadde riversa a terra: al centurione
che brandiva la spada per il colpo di grazia, ella offrì il ventre, incitandolo
a colpire la parte del suo corpo che aveva dato alla luce un figlio così
crudele. Qualcuno ricordò allora che si erano realizzate le parole che Agrippina
stessa, a dire di Tacito nei suoi Annali
(XIV 9), aveva tanto tempo prima pronunciate: Mi uccida, purché regni!».[5]
Nel 60 Nerone istituisce dei
giochi quinquennali in suo onore, i Neronia a cui lui stesso partecipa
costringendo i senatori a fare altrettanto: anche questo atto contribuisce ad
alimentare la sua immagine di principe assoluto orientaleggiante, amato dal
popolo ma odiato dall’aristocrazia. Nel 62 muore il prefetto del pretorio
Burro, e viene sostituito con la figura di Tigellino, che dimostra sin da
subito tendenze più consone al nuovo orientamento del principe. Lo stesso
Seneca si ritira dalla vita pubblica. La moglie Ottavia, già ripudiata ed
esiliata con l’accusa di adulterio, viene fatta uccidere e Nerone convola a
nozze con Poppea.
5- IL TERRIBILE INCENDIO
Venendo al tema se Nerone abbia o meno incendiato Roma dobbiamo dire
questo: Il 19 luglio del 64 d.C., un incendio devastante colpisce Roma mentre
l'Imperatore si trovava già da una settimana ad Anzio e fu informato della
terribile notizia. Lo stesso Tacito ci descrive così la scena:
"L'incendio
ha inizio in quella parte del circo che è contigua al Palatino ed al Celio. In
questo luogo, le botteghe sono riempite di tutte le materie che costituiscono
alimento per la fiamma. Il fuoco, violento fin dal suo nascere, sospinto dal
vento, avviluppa in un istante tutta la lunghezza del circo, dove non si
incontra nessuno di quei palazzi protetti dai loro recinti, nessuno di quei
templi isolati dalle loro mura, nulla infine che sia di natura tale da
ritardarne il progresso. Correndo quindi con impetuosità, devastando prima
tutto ciò che è a livello, poi slanciandosi verso le alture e di là
ridiscendendo ancora, l’incendio previene tutti i rimedi con l'avidità del
male, con tutte le facilità che gli offrono ammassi enormi di case, di strade
strette, irregolari, tortuose, quali sono quelle della vecchia Roma. Lamenti e
terrore delle donne, debolezza dei vecchi e dei bambini, poi gli abitanti che
si preoccupano chi per sé, chi per
altri, trascinando malati o attendendoli, gli uni soffermandosi, gli altri affrettandosi, tutta questa
confusione ostacola i soccorsi.
Spesso, mentre guardano dietro di sé,
si trovano investiti davanti od ai fianchi. Oppure, se tentano di rifugiarsi
nei quartieri vicini, li trovano già preda delle fiamme. Si vedono ancora
inseguiti dallo stesso flagello a distanze che avevano ritenuto considerevoli.
Finalmente, più non sapendo dove sia pericolo e dove sia rifugio, rimangono
ammassati nelle strade, distesi nei campi. Qualcuno avendo perduto tutta la sua
fortuna e non avendo neanche di che sussistere, altri per amore per il prossimo
che non hanno potuto strappare alla morte, con tutte le possibilità di
sfuggire, si seppellisce nei bracieri. E nessuno osa resistere...”. (Tacito, Annali, Libro XV, capitolo 38)
Nel libro XV degli Annali, Tacito si limita a riferire che a Roma corse voce che ad
appiccare il fuoco fossero stati uomini dell'Imperatore. Però, man mano che il
racconto prosegue, appare chiaro come Tacito non creda a queste insinuazioni e
consideri l'incendio dovuto al puro caso.
«Dopo il grande incendio, Nerone celebrò uno spectaculum
privato nei suoi giardini, dove i cristiani accusati di aver provocato
l’incendio vennero giustiziati in varie maniere spettacolari, e nei
concomitanti giochi circensi si mescolò alla folla vestito da auriga o ritto su
un carro. Nel 65 i Neronia vennero
celebrati per la seconda volta».[6]
La costruzione della Domus Aurea
sulle rovine e l’edificazione su una delle cime del Palatino di un’enorme
statua (alta più di 35 metri) dedicata al sole ma con le sembianze
dell’Imperatore alimentano un sospetto che Nerone ha subito cercato di
allontanare, additando come capro espiatorio i cristiani: sospetto che l’ordine
di appiccare il fuoco sia stato dato per aver mano libera nei suoi progetti
edilizi. Svetonio, influente cavaliere che ricoprì importanti cariche
amministrative sotto Traiano e Adriano nel II secolo ma considerato autore di
racconti particolarmente piccanti e scabrosi, cita: “stava a guardare questo
incendio dalla torre di Mecenate, e allietato come diceva dalla fiamma, cantò la
distruzione di Troia in costume teatrale”.
6- LA CONGIURA DI PISONE
Nel 65 inoltre, venne a svilupparsi un movimento ostile a Nerone che portò
ad una congiura diretta ad ucciderlo e a sostituirgli Gaio Calpurnio Pisone,
uomo di non antica nobiltà ma di illustre famiglia. La famiglia dei Pisoni era
una delle più conosciute già nella Roma del I secolo a.C. Alla congiura
parteciparono molte figure importanti, come Fenio Rufo il prefetto del pretorio
e Plauzio Laterano che era console designato e partecipò persino lo stesso
poeta Lucano. La congiura venne scoperta nel corso del mese di aprile del 65. Doveva
avvenire in questo preciso sistema: Nerone sarebbe stato ucciso nella stessa
villa di Pisone anche se in seguito si optò per l’assassinio durante la
rappresentazione dei giochi all’interno del Circo Massimo. Il tutto non avvenne
grazie ad una serie di denunce che permise di rivelare il piano criminale e i
nomi di colore che ne facevano parte. La reazione del principe a tutto ciò fu
quella che ci racconta Tacito nei suoi Annali:
“chiuse Roma come in un carcere”.
La prima persona, vittima della repressione che venne a crearsi, fu lo
stesso Pisone che scelse di suicidarsi, a seguire fu la volta di Plauzio
Laterano, il console designato che fu selvaggiamente ucciso. Lo stesso Seneca
che in modo molto probabile non ebbe mai una parte di primordine nella congiura
venne eliminato dopo aver scoperto che tratteneva buoni rapporti con Pisone.
Nerone pensò sotto l’influenza della stessa Poppea e di Tigellino di condannare
il vecchio maestro al suo stesso suicidio. Tacito ci racconta così la morte del
celebre mentore del principe nelle sue pagine degli Annali:
“Seneca, senza mostrare timore, chiese
che gli venissero portate le tavole del testamento; poiché il centurione non
glielo concesse, si rivolse agli amici e disse che, siccome
gli si impediva di ringraziarli per i loro meriti, lasciava loro l’unico bene
di cui ormai disponeva e anche il più bello: l’esempio della propria vita. Se
avessero custodito questo ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtù
come compenso per una amicizia fedele. Frenava intanto le loro lacrime ora con
il semplice discorso, ora con più forza, quasi scuotendoli. Chiedeva dove
fossero finiti i precetti di saggezza, dove quella dottrina meditata per tanti
anni, che preparava ad accettare il destino incombente. A chi mai era ignota la
crudeltà di Nerone? Dopo aver assassinato la madre e il fratello, non gli
rimaneva infatti altro che accingersi ad uccidere il suo educatore e maestro”.
(Annali, Libro XIV, capitolo 62)
Il filosofo chiese che anche sua moglie Paolina venisse uccisa dopo che
lei esplicitò di condividere la sorte del marito.
“Con un
medesimo colpo recisero le vene delle loro braccia. Seneca, poiché il suo
corpo, ormai vecchio e indebolito dalla scarsa alimentazione, faceva uscire il
sangue troppo lentamente, si tagliò anche le vene delle gambe e delle
ginocchia. Ormai spossato dalle terribili sofferenze, per non fiaccare il
coraggio della moglie, temendo del resto di cedere lui stesso davanti ai
tormenti che subiva la donna, la indusse a chiedere di essere portata in
un’altra stanza”. (Annali, Libro XIV,
capitolo 63)
Tacito continua la sua descrizione degli ultimi istanti di vita del
filosofo che venne portato in un bagno di vapore dove spirò. Venne poi cremato
senza solennità come aveva prescritto nel suo testamento redatto ai tempi della
sua fama. Nerone convocò il senato ed emanò un editto per poter documentare la
congiura e la legittimità delle condanne inflitte ai cospiratori che vennero
progressivamente giustiziati.
7- LA MORTE DI POPPEA E IL VIAGGIO IN GRECIA
Nel corso del 65, a Roma, morì anche la seconda moglie di Nerone, Poppea
Sabina, divinizzata nell’estate dello stesso anno. La tradizione vuole che
Poppea sia morta in stato di gravidanza per un calcio nel ventre datole da
Nerone.
«Nella prima metà del 66, Nerone sposò in terze nozze Statilia Messalina
dai molti matrimoni, e verso la fine dello stesso anno o nel 67, sposò
formalmente il giovane liberto Sporo. Fu Sporo, non Messalina, che rimase a
fianco di Nerone fino alla fine, uno dei suoi quattro compagni nell’estenuante
ultimo “viaggio” dell’Imperatore nel giugno del 68. A Sporo, Nerone si rivolse
per dare inizio al lamento funebre prima di suicidarsi».[7]
Nel corso dell’estate del 66 Nerone si era recato in visita in Grecia
che aveva da tanto tempo sognato di visitare. Il viaggio permise all’Imperatore
di vivere in mezzo a feste, ludi, competizioni poetiche e musicali e di
partecipare alle Olimpiadi e ai giochi istmici. La sua permanenza a Corinto,
permise inoltre l’inizio dei lavori per il taglio dell’istmo. Nerone in quel
frangente annunciò in modo solenne ai Greci la loro libertà, la quale comportava
in sostanza l’immunità fiscale, togliendo quindi la Grecia dal novero delle
province la cui amministrazione era affidata al senato a cui diede come atto di
consolazione reale l’amministrazione della Sardegna. Mentre l’Imperatore era in
Grecia, iniziavano una serie di problemi di tipo militare per il suo impero. Ad
esempio, già alla fine del 66, sia a Cesarea che a Gerusalemme, vennero a
crearsi tensioni che poi sfociarono in conflitti tra Ebrei e Greci. Nerone
decise quindi di inviare in Giudea un suo ottimo generale, T. Flavio
Vespasiano, che al principio del 67 iniziò le operazioni militari contro gli
Ebrei.
8- IL RITORNO A ROMA E LA FINE
Il ritorno di Nerone a Roma, che avvenne in forma solenne, ebbe come
rappresentazione quella di una nuova pompa magna, cercando di pareggiare, nella
mentalità dei romani, l’onore che si otteneva con le vittorie militari con l’onore
per le vittorie nelle gare di ginnastica e nelle gare di poesia. Venne ad
allargarsi però nel frattempo, il profondo conflitto che era già in atto da
tempo ma fino a quel momento ancora relativamente dormiente, cioè quello tra
Nerone ed il ceto di governo e che si estendeva adesso anche agli ambienti
popolari.
Nel corso dell’anno 68 la situazione si aggravò
ulteriormente. Il peso della pressione fiscale determinò una rivolta in Gallia,
da parte di Giulio Vindice, un magistrato d’origine locale che si trovava a
Lione come legato imperiale. La ribellione si estese a tutte le popolazioni
della Gallia e ai comandanti militari dei paesi occidentali parve una buona
occasione per assumere un atteggiamento di ribellione e di protesta contro la
politica dell’Imperatore. Contro Nerone si pronunciarono il legato della
Spagna, Servio Sulpicio Galba, il legato della Lusitania, Salvio Otone, già
amico personale di Nerone e primo marito di Poppea, il legato dell’Africa, L.
Clodio Marco.
«Sulpicio Galba, dalla Spagna in marcia verso l’Italia,
fu dichiarato nemico pubblico e i suoi beni furono confiscati. Però Nerone,
malgrado il potere consolare che aveva da poco tempo assunto, stava perdendo il
controllo della situazione: infatti il prefetto del pretorio, Ninfidio Sabino,
riuscì a staccare i pretoriani dalla loro lealtà verso il principe promettendo
loro un grande donativo a nome di Galba e annunciando, falsamente, la fuga di
Nerone. Il malcontento generale per le economie a cui l’Imperatore era
costretto, gli tolse i sostenitori, e la sua causa fu perduta nel momento in
cui si trovò completamente isolato».[8]
Il senato oltre a revocare la protezione della guardia
pretoriana al principe, nominarono quest’ultimo “nemico pubblico”. Lo stesso
Svetonio ci racconta gli ultimi giorni di Nerone dicendoci che una volta
sentitosi abbandonato, in preda ad una tremenda collera, rovescia a terra due
vasi preziosi che riproducono scene tratte dai poemi di Omero. Poi dà ordine
che gli si prepari una imbarcazione per poter fuggire, ma resosi conto che
tutti i suoi più fedeli servitori lo avevano abbandonato, si lasciò andare al
più cupo sconforto mentre qualcuno arriva persino a deriderlo, citando l’Eneide virgiliana “È forse un male così
grande la morte?”. Svetonio poi nella Vita
di Nerone prosegue:
“cominciò, allora, a desiderare un rifugio appartato, per
raccogliere le forze. Il suo liberto Faone gli propose allora la sua casa di
periferia, situata tra la via Salaria e la via Nomentana, a quattro miglia circa
da Roma. Restando com’era, a piedi nudi e in tunica si gettò addosso un piccolo
mantello di colore stinto, si coprì la testa, stese un fazzoletto davanti alla
faccia e montò a cavallo, accompagnato soltanto da quattro persone (…) Poi, dal momento che ognuno dei suoi
compagni, a turno, lo invitava a sottrarsi senza indugio agli oltraggi che lo
attendevano, ordinò di scavare davanti a lui una fossa della
misura del suo corpo, di disporvi attorno qualche pezzo di marmo, se lo si
trovava, e di portare un po' d'acqua e un po' di legna per rendere in seguito
gli ultimi onori al suo cadavere. A ognuno di questi preparativi piangeva e
ripeteva continuamente: Quale artista
muore con me!”. (Vita
di Nerone, capitoli 48-49)
I cavalieri che hanno l‘ordine di catturare
il principe sono ormai alle porte. Così Nerone decide di afferrare la spada e
se la conficca in gola con l‘aiuto del fedele Epafrodito. Al centurione che
arriva nella stanza e cerca di tamponargli la ferita con il mantello per
poterlo catturare ancora vivo, Nerone ha ancora il fiato di dirgli: “Ormai è
troppo tardi per questo gesto di fedeltà”. Questa fu la fine di Nerone, era il
9 o forse l’11 giugno del 68. Il cadavere fu avvolto in teli bianchi, in
tessuti d’oro e cremato. I resti furono posti in un sarcofago in porfido,
all’interno del mausoleo della sua famiglia. La liturgia funebre, che si rivelò
regale, vide la presenza anche dei fedeli membri della casa imperiale, compreso
Sporo, le vecchie nutrici di Nerone, Egloge ed Alessandra, oltre alla sua concubina
Atte.
9-
IL DOPO NERONE
Alla caduta di Nerone la reazione del
popolo fu per metà gioiosa in quanto, come lo stesso Tacito afferma, sia i
senatori che i cavalieri esultarono per la libertà riavuta, una libertà ancora
più gradita dato che il nuovo Imperatore Galba si trovava ancora in Spagna ed
era lontano quindi da Roma. La stessa parte più rispettabile della plebe, le
persone legate alle grandi famiglie senatorie, i clienti e i liberti degli
aristocratici che erano stati condannati ed esiliati, videro rinascere la loro
speranza di azione. La città di Roma in quel determinato periodo era tenuta
sotto controllo da Ninfidio Sabino, che rivestiva il ruolo di prefetto del
pretorio. Quest’uomo ambiva a salire sul trono, spacciandosi per figlio
illegittimo del defunto Imperatore Caligola. Con questa idea per la mente,
cercò di attirare a sé i consensi del senato ed inoltre per rendersi affabile
agli occhi della plebe, permise a questa di infierire contro la memoria e i
favoriti di Nerone.
Lo stesso Svetonio ci racconta che, in quei
determinati giorni, la plebe stessa era esultante e correva per le strade con
il pilleus (il copricapo indossato
dagli schiavi all’atto della cerimonia detta manomissione-manumissio, all’atto quindi di diventare liberti) in testa. Ci
furono però anche coloro che continuarono per molto tempo a recarsi alla tomba
di Nerone portando con sé fiori freschi come omaggio. Nello stesso Foro in
alcuni casi furono erette delle statue che raffiguravano Nerone nel periodo
adolescenziale con indosso la toga
praetexta cioè la toga listata di porpora dei magistrati romani. Si arrivò
persino ad emanare e pubblicare degli editti in suo nome, come se lui fosse
ancora vivo e stesse di lì a poco per ritornare a confondere i suoi nemici. Lo stesso Tacito ci descrive nelle sue
memorie che ci furono altri individui colpiti dalla dipartita dell’Imperatore,
riconosciuti precisamente nella plebs
sordida, ovvero quella parte del popolino che frequentava il circo ed il
teatro, purtroppo sempre pronta a dar credito ad ogni diceria sul suo conto. Si
deduce che, nonostante la minimizzazione dello storico, «il numero di coloro
che rimpiangevano il loro Imperatore doveva essere notevole, probabilmente la
maggioranza».[9]
Il regno di Galba dura poco, solo sette
mesi, in quanto il nuovo Imperatore scontenta diverse categorie, non solo le
legioni della Germania rimuovendo il comandante dell’esercito Virginio Rufo, ma
sostituisce anche il prefetto del pretorio che aveva portato i suoi dalla parte
dello stesso Galba. Questi non concede neppure il donativo promesso ai
pretoriani e soprattutto delude fortemente tutta la plebe imponendo economia
alla finanza pubblica. Tutto ciò comporta che il 1° gennaio del 69 le legioni
della Germania rifiutano di rinnovare il giuramento di fedeltà a Galba e
acclamano Imperatore, il loro legato Aulo Vitellio. Galba nomina erede una
persona che viene ben accettata dal senato, Calpurnio Pisone Frugi Liciniano.
Delude però in questo modo Otone che lo aveva appoggiato fin dall’inizio e che
sperava nella successione. Otone allora si rivolge ai pretoriani e li convince
ad eleggerlo Imperatore; Galba e Pisone vengono uccisi. Il nuovo Imperatore ha dalla sua parte l’Italia,
le province danubiane, l’Africa e l’Oriente. Con Vitellio invece si schierano,
oltre alla Germania, la Spagna (Terraconense), la Gallia, la Britannia e la
Rezia. Il contesto storico è alquanto
concitato e confuso. Dopo la morte di Galba, come ci riferisce Edward Champlin,
Otone prese a sfruttare la sua identificazione con Nerone, da parte
dell’opinione pubblica, “nella speranza di trarre la plebe dalla sua”.
Fece appunto restaurare le statue di
Poppea con decreto del senato e gli stessi soldati e la plebe lo salutarono con
l’appellativo di Nerone Otone. Dopo la fine di Galba, quindi, Otone rivaluta la
figura di Nerone e attua anche un piano per reintegrare, nelle loro cariche, i
procuratori e i liberti di Nerone che erano stati licenziati da Galba. Inoltre
stanzia cinquanta milioni di sesterzi per completare la Domus Aurea. Il suo regno però dura poco per poter imporre le
proprie volontà; infatti già nell’aprile del 69 le forze di Vitellio
sconfiggono Otone a Cremona. Otone decide allora di suicidarsi.
Il nuovo Imperatore Aulo Vitellio è un
gaudente di mezza età che era insorto contro Galba e non diversamente si
contenne con Otone. Vitellio era stato un influente cortigiano, la cui passione
per le corse e i dadi, non meno che la sua ossequiosità, lo aveva reso caro a
Nerone; come diceva Svetonio, non lasciò dubbi circa il modello cui si sarebbe
ispirato per governare Roma. «In pieno Campo Marzio, forse in vista della sua
tomba, celebrò sacrifici funebri in onore di Nerone su altari costruiti per
l’occasione; il fuoco per bruciare le vittime venne acceso dagli Augustali, un
pubblico collegio sacerdotale fondato dall’Imperatore Tiberio per onorare la
casa dei Cesari, e comprendente alcuni degli uomini più autorevoli dello Stato».[10]
Presto ci fu lo scontento anche nei
confronti di Vitellio ed in Oriente emerge una nuova figura come antagonista.
Vespasiano, un generale che come detto
precedentemente era stato inviato nell’anno 67 da Nerone in Giudea a sedare una
rivolta. Vespasiano, proclamato Imperatore dal prefetto dell’Egitto il 1°
luglio del 69, viene riconosciuto dalle sue legioni della Giudea, e poi dalla
Siria, dalle province danubiane, da quelle orientali e dai maggiori regni
clientelari. Mentre Vespasiano lascia il figlio Tito in Giudea ed occupa
l’Egitto, le legioni siriane, al comando di Licinio Muciano e le danubiane sotto
Antonio Primo, si dirigono verso l’Italia dove i soli eserciti danubiani sconfiggono
i vitelliani a Cremona che viene orribilmente devastata e saccheggiata.
A dicembre dello stesso anno coloro che
sostengono Vespasiano entrano a Roma e solo l’arrivo di Gaio Licinio Muciano
impedisce che la città sia distrutta come Cremona. Il senato riconosce quindi
in questo momento il nuovo Imperatore Vespasiano che giunge a Roma però solo
alla fine dell’estate del 70. Con Vespasiano la possibilità di riabilitare la
figura di Nerone viene meno. Il nuovo Imperatore, che elogiava il ricordo di
Galba, revoca la libertà concessa da Nerone alla Grecia e apre la Domus Aurea. Dedica inoltre al dio Sole
la statua gigantesca di Nerone.
«Con il consolidamento della sua nuova
dinastia, quella dei Flavii e l’avvento di una moralità più rigorosa, oltre
alla pubblicazione di opere ostili a Nerone come la tragedia Octavia e le storie di Plinio il
Vecchio, la reputazione di Nerone come mostro venne fissata per l’eternità».[11]
10- LA “DAMNATIO MEMORIAE”
«Negli studi moderni troviamo ripetute
infinite volte che Nerone subì quella che è chiamata la damnatio memoriae, la condanna del suo ricordo. La cosa non è vera,
e il termine è impreciso e fuorviante per più aspetti. Infatti non lo si trova
in alcuna opera antica: si tratta di un’espressione moderna modellata sul
concetto giuridico, del tutto estraneo, di memoria
damnata nel preciso senso di condanna postuma in tribunale di una persona
accusata di perduellio o alto
tradimento.
Ciò nondimeno, l’espressione è venuta ad
applicarsi senza distinzione a vari attacchi mossi a Imperatori o loro
familiari, ad aristocratici e alti funzionari caduti in disgrazia. Il termine
ebbe origine da specifiche sanzioni giuridiche intese a disonorare rei
condannati attaccando la loro memoria e denigrando la loro reputazione non solo
in vita ma anche dopo morte: così, i ritratti di un criminale potevano venir
distrutti, il suo nome cancellato dagli atti e dai monumenti ufficiali,
proibendo che altri lo portassero, e si poteva rifiutare la sepoltura e il
compianto».[12]
Nerone poco tempo prima della sua morte
era stato dichiarato nemico pubblico, come abbiamo già menzionato in precedenza
ma a lui non vennero applicate quelle sanzioni che poc’anzi abbiamo citato.
Infatti le sue statue ricomparvero nel Foro e i suoi atti non furono annullati
né dal senato né tantomeno dai suoi successori. Dobbiamo ricordare inoltre che
il suo stesso funerale era stato celebrato in modo normale senza alcuna
modifica per quanto riguarda il programma di organizzazione e sepoltura.
La memoria di Nerone non fu condannata e
gli atti di violenza, nei confronti delle statue che lo rappresentavano, erano
per di più dovuti a sfoghi di rabbia privata e non voluta per volere di un
verdetto che proveniva dalle alte sfere di coloro che decidevano. Dopo degli
attenti studi e ricerche si è potuto constatare che molte immagini di Nerone
furono nel corso degli anni seguenti alla sua morte modificate e di nuovo
modellate.
Una risposta che possiamo dare a questo
fatto è che le trasformazioni di queste immagini non suonino come una precisa
condanna ma che l’artista abbia voluto egli stesso identificare il soggetto che
andava a rappresentare con la figura dello stesso Nerone. Inoltre Nerone
godette del raro privilegio di avere dei ritratti postumi come possiamo
evincere da una serie di testimonianze che sebbene siano sparse in vari luoghi sono
davvero impressionanti.
La prima è una statua di Nerone che è
stata rinvenuta nella città di Tralle in Asia Minore e che gli esperti del
settore collocano all’età degli Antonini e precisamente alla metà del II secolo
d.C. Tutto questo per dire che qualcuno eresse una statua di Nerone ben un
secolo dopo la sua morte. Stessa cosa riguarda un busto-ritratto in bronzo oggi
conservato nella Biblioteca Vaticana e che gli studiosi collocano la sua
fabbricazione durante il regno dell’Imperatore Gallieno, vale a dire metà circa
del III secolo d.C. Tutto questo serve per rammentare che l’interesse per il
ricordo dell’Imperatore Nerone non era andato declinandosi con il tempo anzi,
tutt’altro.
L’ultimo
della dinastia Giulio-Claudia era una delle figure più popolari anche dopo tali
date appena citate: su alcuni medaglioni del tardo IV secolo d.C. ritroviamo ancora
spesso la sua figura.
«Il
più stupefacente ritratto postumo di Nerone è un cammeo che si trova oggi nella
biblioteca pubblica di Nancy, nella Francia meridionale. Pur non essendo datato
con sicurezza – vi sembra rappresentato il tipo dei suoi ritratti del periodo
59-64 d.C. - esso intende sicuramente raffigurare un Nerone non più vivo. La
metà inferiore del cammeo è dominata da un’aquila in piedi con le ali spiegate
e il corpo rivolto allo spettatore, la testa di profilo e volta a destra. Nella
metà superiore, a destra del centro, c’è Nerone seduto sulla schiena
dell’aquila, col corpo rivolto anch’esso verso lo spettatore e la testa di
profilo, volta a sinistra. Ha una barba leggera e porta sul capo una corona
d’alloro. Sulle spalle ha l’egida col gorgoneion,
ossia l’emblema di Giove con la testa di Medusa, con i lembi svolazzanti al
vento. La parte inferiore del corpo è coperta da un mantello le cui pieghe sono
visibili sopra la testa dell’aquila. L’Imperatore porta i sandali e tiene il
braccio destro disteso. Una piccola Vittoria, o forse una statuetta della dea,
sembra prendere il volo dalla sua mano; con le due mani levate essa porge a
Nerone quella che potrebbe essere una corona d’alloro. Nerone porta nel cavo
del braccio sinistro una cornucopia traboccante di frutti. L’aquila che lo
sostiene ha dei fulmini negli artigli e tiene lo sguardo fisso su Nerone,
portatore di vittoria e di abbondanza. Dal punto di vista iconografico questa
scena è inequivocabile. Si tratta di un’apoteosi. Circondato da attributi divini,
Nerone viene portato tra gli dèi dopo la morte: per tradizione, era l’aquila di
Giove a portare gli Imperatori defunti in cielo. Qui l’Imperatore non è
soltanto Nerone l’eroe, ma Divus Nero,
Nerone il Dio. La constatazione della sua vibrante sopravvivenza deve orientare
la nostra attenzione non tanto sulle eventuali vere intenzioni o sulla reale
natura delle sue azioni, quanto sul modo in cui egli intendeva che venissero
percepite, e in cui effettivamente le percepì un pubblico ricettivo. Alla luce
della sua sopravvivenza dobbiamo chiederci non già se Nerone fosse un uomo
buono o un buon Imperatore, ma come mai poteva apparire tale».[13]
CAPITOLO
SECONDO
Le
fonti storiografiche: i detrattori e la leggenda “nera” su Nerone
Venendo alla questione relativa alle
fonti storiografiche, dobbiamo considerare tre fonti fondamentali che sono:
Tacito, Svetonio e Dione Cassio. In alcuni casi coincidono in modo più o meno
netto. Ma questi autori si sono basati per redigere i propri scritti anche a delle
fonti comuni che sono andate, fino ad oggi, perdute.
1-
TACITO
Iniziando la nostra ricerca con la
figura di Tacito dobbiamo dire che quest’ultimo è forse considerato come il
maggior esponente di storiografo di epoca romana. «Rivestì il ruolo di senatore
sotto il principato di Domiziano, di Nerva e di Traiano e nel 97 divenne
console e, circa quindici anni dopo, proconsole d’Asia. Delle sue opere noi
analizzeremo quella degli Annali che è
anche la sua opera finale e racconta in modo spettacolare la storia di Roma
dalla morte di Augusto ma che si interrompe in modo improvviso al sedicesimo
libro con la morte di Trasea Peto».[14]
Iniziando la nostra veloce analisi dal libro tredicesimo, capitolo primo,
veniamo a sapere dell’avvelenamento di Giunio Silano che rivestiva il ruolo di
proconsole d’Asia. Tacito scrive che l’uccisione venne per volere di Agrippina
mentre ignaro di tutto fu Nerone. Da questa notizia possiamo capire che Tacito
voleva pubblicamente accusare Agrippina. La morte di Silano viene raffigurata
quindi come una ingerenza politica agli albori del regno di Nerone. Nel secondo
capitolo del tredicesimo libro degli Annales
vengono introdotte due figure cardini della vita dell’Imperatore: Afranio Burro
e Anneo Seneca.
Senza la loro presenza, si sarebbe
insistito nelle uccisioni e la lotta comune dei due si rivolgeva alla figura di
Agrippina che come lo stesso Tacito ci rammenta era infiammata da tutte le
voglie di una pessima tiranna. La figura dei due personaggi vicini a Nerone,
quindi, diede a quest’ultimo regole di costume e una cultura oltre che una
certa linea di vita “morale”. Dopo aver chiarito la situazione nella quale si
trovava il giovane Nerone, nei capitoli dal 3 al 5, continua la sua
presentazione attraverso l’elenco delle sue direttive oltre che dei suoi primi
atti. Tacito inoltre denota che Nerone fin dalla prima fanciullezza aveva
dedicato molta cura alle arti figurative, alla musica, alla equitazione e anche
alla poesia. Tacito ci descrive anche l’esposizione del discorso che il nuovo
Imperatore fece per la prima volta davanti al senato. Nerone parlò ricordando
gli esempi dei suoi predecessori e chiariva inoltre il fatto che egli non
saliva al potere gonfio di rancori o come portatore di odi di vario genere. Nel
capitolo 5, oltre all’elenco dei primi atti di governo da parte di Nerone,
abbiamo anche la descrizione del ricorrente contrasto tra la figura della madre
Agrippina e quella dei precettori dell’Imperatore, Seneca e Burro. Nel capitolo
6, invece, possiamo notare, attraverso la descrizione di Tacito, come le voci
che circolavano per Roma descrivevano l’allora giovane Imperatore
diciassettenne come una figura in mano ad una donna potente che era
rappresentata dalla figura della madre e che non avesse alternativa nel
lasciare ai suoi precettori le operazioni di guerra. I capitoli successivi al 9
continuano a descrivere gli inizi del regno di Nerone ed affermano la
moderazione dell’Imperatore ed il suo desiderio di astenersi dai poteri e da
onori che non sono consoni alle tradizioni romane. Questa serie di
atteggiamenti vengono presi da Tacito come segni della decadenza del potere di
Agrippina e dell’accrescersi dell’influenza di Seneca. Il motivo dominante è
quindi sempre quello del conflitto tra le figure dei due precettori e quella di
Agrippina, mentre la stessa figura del principe sembra quella di un ragazzo in
mezzo ad una tempesta di ritornanti rivalità.
La figura di Nerone nei capitoli a
partire dal capitolo 25 si fa sempre più interessante ed egli prende sempre di
più uno spazio importante sulla scena anche se lo stesso Tacito nello stesso
capitolo 25 ci riferisce i bagordi del principe con queste parole:
“Nerone, travestito da schiavo, scorrazzava
per le vie della città, per i lupanari e le osterie, in compagnia di gentaglia
che rubava le merci esposte in vendita e malmenava i passanti; e le sue vittime
erano tanto lontane dal riconoscerlo che non gli risparmiavano colpi di cui poi
portava i lividi sul volto”. [15]
Andando però oltre a questi
comportamenti lo stesso autore Tacito nei capitoli immediatamente successivi ci
dice che gli atti di governo emanati nel corso dell’anno 56, vengono attribuiti
alla sola figura del principe senza alcuna influenza da parte di coloro che gli
erano vicini. La situazione si fa però molto interessante a partire dal libro
quattordicesimo quando vengono descritti i preparativi tramite i quali la ormai
asfissiante Agrippina doveva essere eliminata. Nerone, che aveva come amante la
figura di Poppea, viene influenzato da quest’ultima a commettere il terribile
matricidio come ci descrive lo stesso Tacito. Nerone, in cui
per la consuetudine al potere era cresciuta l’audacia e che di giorno in giorno
bruciava sempre di più la passione per Poppea, non volle rimandare un delitto a
lungo meditato. Poppea, non potendo sperare che Nerone la sposasse e
divorziasse da Ottavia mentre era ancora in vita la madre Agrippina, con
frequenti recriminazioni e talvolta sarcasmi, assillava il principe e lo
definiva un fantoccio, perché, sottomesso agli ordini altrui, non solo non
controllava l’Impero, ma neppure la sua libertà personale.
Dopo la morte della madre, verso la fine
del libro quattordicesimo, Tacito ci descrive anche la morte della figura di
Burro e il ritiro a vita privata di Seneca. Burro muore come descritto nel
capitolo 51 in questo modo:
“Burro morì, non si sa se per malattia o per
veleno. Che fosse morto di malattia lo si arguiva dal fatto che la gola gli si
era gonfiata internamente fino a bloccare le vie respiratorie e a togliergli il
fiato. I più invece affermavano che, per ordine di Nerone, gli si spalmò sul
palato una sostanza velenosa con il pretesto di applicargli un rimedio e che
Burro, accortosi del delitto, quando Nerone andò a fargli visita distolse lo
sguardo da lui e alle sue domande rispose soltanto:
Io, per conto mio, sto bene”.[16]
Il libro quattordicesimo si conclude con
l’efferato omicidio di Ottavia che come ci dice l’autore degli Annali: “strettala
in catene, le aprirono le vene per tutte le membra e, poiché il sangue gelato
dal terrore fluiva troppo lentamente, la soffocarono tra i vapori di un bagno
bollente”[17] e l’unione attraverso le nozze con Poppea. Entrambi
i fatti suscitano in Tacito uno sdegno lampante.
Nel libro quindicesimo degli Annali al capitolo 38 viene descritto
l’incendio della città di Roma. Così viene introdotto dallo stesso autore:
“Seguì poi un disastro, non si sa se
dovuto al caso o alla perfidia del principe (le fonti offrono entrambe le
versioni), ma certamente più grave e terribile di ogni altro che si sia mai
abbattuto su Roma per la violenza del fuoco”.[18]
Tacito quindi non si espone a emanare un
verdetto sulla sua origine. Tacito ci dice anche però che Nerone una volta
informato e tornato a Roma da Anzio:
“Ma, per recar sollievo al popolo rimasto
privo di case e costretto ad andar vagando qua e là, Nerone fece aprire il Campo
Marzio, i monumenti di Agrippa e perfino i propri giardini, e fece costruire
degli alloggiamenti improvvisati che accogliessero la massa dei cittadini
rimasti privi di ogni mezzo”.[19]
Continuando
nel suo racconto al capitolo 39, sempre secondo delle voci che erano circolate,
riferisce anche che:
“nel momento stesso in cui la città era
in preda alle fiamme, egli era salito sul palcoscenico del Palazzo imperiale e
aveva cantato la caduta di Troia, raffigurando in quella antica sciagura il presente
disastro”.[20]
Nel capitolo 40 Tacito torna ad
accogliere voci che risultano ostili a Nerone, dicendoci che quest’ultimo
cercasse la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome.
Nel capitolo 44 possiamo leggere, oltre
all’allontanamento della sua responsabilità sulla causa dell’incendio, l’inizio
della persecuzione contro i cristiani, con queste parole:
“Allora Nerone, per sfatare tale diceria, presentò come
colpevoli e sottopose alle più raffinate torture coloro che si erano resi
odiosi per le loro nefandezze ed erano chiamati Cristiani dal volgo (…) In un
primo momento furono arrestati coloro che confessavano la loro fede, poi, su
loro denuncia, moltissimi altri furono giudicati colpevoli non tanto del
delitto d’incendio quanto di odio per il genere umano. E alla loro morte si
accompagnò anche il dileggio: furono coperti di pelli ferine e fatti sbranare
dai cani oppure vennero crocifissi o arsi vivi perché come torce servissero da
illuminazione notturna, dopo il tramonto del sole”.[21]
Benché si trattasse di colpevoli, che
avevano cioè meritato punizioni così particolari, nasceva però nei loro
confronti anche un senso di pietà, trattandosi di vittime sacrificate non al
pubblico bensì alla crudeltà di uno solo.
L’ostilità
contro Nerone prosegue nel capitolo 45, dove a causa sua, si narra: “Frattanto, per raccogliere denaro, si saccheggiò
l’Italia e si rovinarono economicamente le province, i popoli alleati e quelle
città che vengono chiamate libere”.[22]
Nel capitolo 48, Tacito inizia a
parlarci della congiura di Pisone dell’anno 65. Si chiarisce in questo capitolo
la figura di Pisone e nei capitoli immediatamente seguenti viene stilato un
elenco delle persone che ne fecero parte. Una volta scoperta la congiura,
Nerone a partire dal capitolo 58 corre ai ripari con una serie di strategie per
difendersi da coloro che lo volevano morto:
“Mentre in Nerone cresceva di giorno in
giorno la paura, benché avesse moltiplicato intorno a sé il numero delle
guardie (…) serrò, per così dire, Roma stessa in una prigione, facendo
presidiare le mura da manipoli di soldati, mentre persino il mare e il fiume
venivano occupati”.[23]
Il capitolo successivo ci descrive la fine
dello stesso Pisone che morì dopo essersi tagliato le vene delle braccia.
Importante, in seguito, è la morte di Seneca che, sebbene non direttamente
coinvolto nella congiura, viene eliminato. Il libro quindicesimo si conclude
con il riferimento che a Nerone vengono tributati particolari onori:
“Allora si
decretarono offerte e cerimonie di ringraziamento agli dèi con particolari celebrazioni
in onore del Sole, perché con la sua divina potenza aveva svelato i segreti
della congiura. Si stabilì inoltre che i giochi del circo in onore di Cerere
fossero celebrati con un maggior numero di corse di cavalli, che il mese di
aprile prendesse il nome di Nerone, e che si consacrasse un tempio alla dea
Salute in quel luogo da cui Scevino aveva preso il pugnale”.[24] Al capitolo 6 del libro sedicesimo viene descritta la
morte di Poppea che casualmente, in uno sfogo d’ira di Nerone, venne colpita,
gravida, da un calcio del marito. Con il capitolo 35 si conclude quello che rimane degli Annali di Tacito.
2-
SVETONIO
Andiamo adesso a sottoporre la vita
svetoniana di Nerone a un’analisi corrispondente a quella svolta per gli Annali di Tacito. Iniziamo innanzitutto
a delineare la figura di Svetonio che fu un equestre e che rivestì molte cariche
amministrative sotto Traiano e Adriano nella prima parte del II secolo. La Vita di Nerone è contenuta nel libro Vite dei dodici Cesari, versione storica
da Cesare a Domiziano. La Vita di Nerone
inizia con un racconto della sua famiglia cioè quella dei Domizi Enobarbi, dove
dal capitolo 1 sino a quando non si parla della figura di Nerone e vale a dire
il capitolo 6, abbiamo un elenco di tutte le caratteristiche più denigratorie
nei confronti dei componenti di questa famiglia. Il capitolo 6 parla infatti
della nascita di Nerone e descrive anch’esso, come è tipico in Svetonio, tutti
quei particolari scabrosi e piccanti che riguardano la sua esistenza. Ad
esempio Svetonio ci dice:
“Per molte persone che in quel momento stavano
facendo numerose e tremende predizioni sul suo oroscopo, fu come un presagio
anche la frase del padre Domizio, il quale, mentre gli amici si congratulavano
con lui, affermò che da lui e da Agrippina non poteva essere nato nulla che non
fosse detestabile e funesto per tutti”.[25]
Con il capitolo 10, Svetonio a differenza di
Tacito ci narra che Nerone nei primi momenti del suo principato non abbia avuto
alcuna personalità che lo sovrastasse come era stato descritto negli Annali con la figura della stessa
Agrippina e dei suoi precettori. Sempre nel capitolo 10, Svetonio ci indica
come Nerone voglia governare secondo il modello augusteo attraverso uno spirito clemente ed amabile.
«Secondo Svetonio, atteggiandosi a
principe saggio e generoso, Nerone provvide a sgravi fiscali, inoltre viene
data anche notizia di distribuzione di denaro al popolo, di assegni fissi per
sovvenire i senatori le cui famiglie fossero cadute in miseria e inoltre di una
distribuzione mensile gratuita di cereali per gli appartenenti alle coorti
pretorie».[26]
I capitoli che vanno dal 7 al 19 elencano
una serie di notizie dove sarebbe difficile affermare che ci sia una certa
ostilità nei confronti della figura di Nerone. Infatti in questi capitoli non
ritroviamo nessuna traccia di spunto polemico. Ad esempio al capitolo 12 si
dice che Nerone non voleva che ci fossero vittime umane durante un
combattimento fra gladiatori. Quest’ultima notizia ricalca quindi una
considerazione che viene vista positivamente da Svetonio. L’unico piglio
negativo che possiamo notare a metà capitolo è quello nel momento in cui si
descrive, senza però ostilità, le caratteristiche elleniche che sempre più
spesso Nerone fa prendere ai giochi romani, allontanandosi dai costumi tipici
fino a quel momento in voga. Nel capitolo 16 lo stesso autore Svetonio ci
narra:
“Escogitò nell’Urbe un nuovo tipo di edifici, facendo
erigere davanti agli isolati e alle case dei porticati sormontati da terrazze,
da dove si sarebbe potuto combattere gli incendi: e l’erezione dei porticati
avvenne a sue spese”.[27]
Quindi in quest’ultimo capitolo viene
rinfrancato ancora di più il carattere non ostile della fonte nei confronti di
Nerone. Nel capitolo 18 si riferisce quanto Nerone non fu mai preso in nessun
modo né dal desiderio né dalla speranza di accrescere e di estendere l’Impero.
Dalla fine del capitolo 19, però, l’atteggiamento di Svetonio cambia nei
confronti dell’Imperatore come lo stesso autore ci narra:
“Ho radunato assieme tutti questi atti, di cui alcuni non
meritano alcun biasimo, e altri sono persino degni di non lievi elogi, in modo
da dividerli dalle sue vergogne e dai suoi delitti, di cui parlerò a partire da
questo momento”.[28]
Questo cambiamento nel
giudicare la figura del principe potrebbe essere causata, quasi sicuramente,
dal cambio di fonte, a cui lo stesso Svetonio attinge. Ad esempio se prendiamo il
capitolo 21 e il 22, ritroviamo una figura di Nerone che è preoccupata
solamente per i giochi e le corse dei cavalli e non lo è per la stabilità e la
linea del suo governo. Lo stesso viaggio in Grecia viene descritto come
personale capriccio di Nerone dove quest’ultimo sosteneva che solo i Greci
sapevano ascoltare e che solo loro erano degni di lui e della sua arte.
Dal capitolo 26, dopo il ritorno di Nerone dal
viaggio effettuato in Grecia, abbiamo uno scorrere di notizie alquanto negative
nei confronti di Nerone che non si discostano di molto da quelle che ci aveva
dato Tacito attraverso la lettura della sua precedente opera anche se, in
questo contesto, vengono notevolmente enfatizzate.
Nerone
viene raffigurato come dedito a scorribande serali in vari quartieri; vengono
descritte persino, nel ventottesimo capitolo, le sue relazioni con donne
sposate e le violenze sessuali perpetrate alla vestale Rubria, fino ad arrivare
al comportamento incestuoso con la stessa madre Agrippina. Al capitolo 30 Nerone
viene accusato di gravare con la sua serie di sperperi finanziari, fino ad
arrivare con il capitolo 32 a vessazioni in campo sempre fiscale nei confronti
degli stessi cittadini:
“si volse alla calunnia e alla rapina”.[29]
Nel capitolo 34 viene narrata, in modo
analogo a quello di Tacito, la morte della madre Agrippina; dopo aver descritto
nel capitolo precedente la morte di Claudio e di Britannico. Nel capitolo 35 vengono
descritte invece le morti delle rispettive mogli Ottavia e Poppea e dei suoi
precettori Seneca e Burro. Nel capitolo successivo viene citata sia la congiura
di Pisone che si formò e fu scoperta a Roma che la repressione attuata da
Nerone per porle fine. Fondamentale è la descrizione del capitolo 38 quando si
affida completamente, senza alcuna ombra di dubbio, all’accusa nei confronti dell’Imperatore
relativamente all’incendio della città di Roma:
“Ma non risparmiò neppure il popolo, né le mura della sua
patria. Quando, nel corso di una conversazione, un tale citò il verso in greco “Dopo
la mia morte, la terra scompaia pure nel fuoco”, egli disse “Anzi, scompaia
quando sono ancora in vita!” e realizzò fino in fondo questo desiderio”.[30]
Svetonio ci descrive come Nerone avesse come
obiettivo quello di rinnovare in toto la città attraverso le fiamme; questa
affermazione però cozza violentemente contro quella già sostenuta dallo stesso
autore nel capitolo sedicesimo quando parlava del rinnovamento urbanistico e
delle misure antincendio che avrebbe decretato Nerone a seguito del precedente
incendio per la città di Roma.
Se vogliamo, il racconto, che lo stesso
Svetonio fa dell’incendio della città, si avvicina molto a quello descritto da
Tacito, anche se diverge in modo evidente quando, in quest’ultimo, le notizie
sul suo fautore vengono messe in forma dubitativa, mentre in Svetonio sono date
per certe.
La vita svetoniana di Nerone si conclude con
il capitolo 57 dove viene riferito che, morì nel suo trentaduesimo anno di età
e dove si fa menzione di un individuo che, vent’anni dopo la morte di Nerone,
fosse apparso pretendendo di essere egli stesso l’Imperatore; tutto questo
permise a questo “nuovo Nerone” di avere un forte sostegno dai Parti che da
sempre rendevano omaggio alla figura dell’ultimo discendente della dinastia Giulio-Claudia.
«Con questo capitolo si conclude la vita
svetoniana di Nerone senza che sia possibile affermare l’esistenza di una unica
fonte per tutta la biografia di Svetonio, come non è stato possibile
riconoscere un’unica fonte anche per tutte le notizie contenute negli Annali di Tacito».[31]
3-
CASSIO DIONE
La terza delle tre maggiori fonti sulla
figura di Nerone che andiamo ad esaminare è quella di Cassio Dione, che va dal
libro LXI al libro LXIII.
Prima di iniziare la nostra analisi, facciamo
una breve biografia dell’autore. Cassio Dione, nacque alla metà del II secolo e
rivestì il ruolo sia di senatore, che di console e di governatore all’epoca dei
Severi. Cassio Dione scrisse una monumentale Storia romana in greco, degli ottanta libri di cui l’opera era
composta, abbiamo in originale solo quelli compresi fra la metà del I secolo
a.C. e gli anni quaranta del I secolo d.C.; in quest’ultima opera sono
contenuti proprio i tre libri dedicati a Nerone che sono giunti in estratti
compilati da Xifilino e Zonara, due monaci bizantini, il primo del XI secolo e
il secondo del XII secolo ma che purtroppo non indicarono quanto del materiale
fosse attinto da Cassio Dione e quanto ne fosse attinto da altra/e fonte/i.
«Agli inizi del LXI libro viene riferito
come la vera giustizia avrebbe dato il regno alla figura di Britannico, che era
il figlio legittimo di Claudio, mentre il potere passò, legalmente, nelle mani
di Nerone che era stato adottato. Viene quindi, attraverso questo passo,
contrapposto il diritto naturale che avrebbe dato ragione a Britannico al
diritto strettamente legale che giustificava la successione di Nerone: tutto
questo non si trova nelle altre fonti».[32]
In questo libro viene elencato anche il cattivo
pronostico che il padre Domizio fece nei confronti del figlio come ritroviamo
in modo identico a quello fatto da Svetonio nella sua opera. Nell’opera di
Cassio Dione abbiamo l’identica rappresentazione del carattere di Nerone che ci
aveva descritto Tacito. Infatti anche qui Nerone è descritto come una figura
trascurabile, e che viene spesso sopraffatta da quelle più imponenti di
Agrippina, Seneca e Burro. Infatti nel LXI, 4,1 si parla di Nerone come di un
principe svogliato e pigro, e che rimane volentieri estraneo
all’amministrazione dello stato. Nei successivi paragrafi dello stesso capitolo
viene riferito che i suoi precettori appagavano ogni suoi desiderio, pur di
essere loro stessi a governare e non capendo che tutto questo avrebbe provocato
un rovinoso peggioramento nel comportamento di Nerone che, come si narra nel
capitolo 5, iniziò ad imitare la figura di Caligola. Vengono descritti in
seguito gli atti che compì come una figura di despota:
“Furono infatti innumerevoli le violenze, gli abusi, le
spoliazioni e gli assassini sia da parte di Nerone medesimo, sia da parte di
coloro che di volta in volta acquisivano potere presso di lui. Del resto, come
inevitabilmente consegue a simili situazioni, grandi somme di denaro venivano
spese, grandi somme venivano racimolate iniquamente, e altrettante venivano
rastrellate commettendo dei soprusi”.[33]
Nel capitolo 6 si parla della morte di
Marco Giunio Silano, e la sua eliminazione, come era accaduto nel caso di
Tacito (Annali 13,1), viene attribuita al volere della madre Agrippina.
«Con la decadenza del prestigio di Anneo
Seneca e di Afranio Burro e della loro influenza sul principe, questi perde
ogni freno e ogni ritegno. Le analogie tra il racconto di Tacito e quello di
Cassio Dione procedono evidenti nei capitoli successivi».[34]
Come era accaduto in Tacito, il consiglio di eliminare Agrippina parte dalla
richiesta fatta da Poppea al principe:
“Quando Sabina venne a sapere ciò, persuase Nerone a
sbarazzarsi di sua madre”.[35]
(Libro LXI, cap. 12)
Non c’è nessuna differenza nemmeno
proseguendo la lettura, che tratta della morte di Agrippina, tra i due testi.
Nel libro LXII al capitolo 13 viene riferito che Nerone nell’anno 62:
“dapprima ripudiò Ottavia Augusta per Sabina, sua
concubina, e in seguito la fece anche uccidere, sebbene Burro si fosse opposto
e avesse avversato la sua decisione di ripudiarla, rivolgendogli persino, una
volta queste parole: Ebbene restituiscile almeno la dote (alludendo con ciò al
potere assoluto)”.[36]
In merito a questo episodio, in cui la stessa
figura di Burro rimprovera Nerone, dobbiamo dire che non si trova né in Tacito
né tantomeno nel suo successore Svetonio. In merito alla disgrazia di Ottavia,
però, ci sono analogie con quanto dice Tacito e lo stesso Cassio Dione. Per
quanto concerne l’incendio di Roma, Cassio Dione dice:
“In seguito Nerone sentì il desiderio di realizzare
quello che senza dubbio aveva sempre sperato, e cioè mandare in rovina l’intera
città e il regno fintanto che era ancora in vita (…) Pertanto incaricò
segretamente alcuni uomini, i quali, comportandosi come se fossero ubriachi o
come se stessero commettendo qualche misfatto, dapprima appiccarono dei focolai
in uno o due o, addirittura in più punti della città”.[37]
(Libro LXII, cap.16)
Possiamo quindi capire attraverso questa
descrizione dell’incendio come lo stesso Cassio Dione sia convinto che colui il
quale deve essere imputato dell’immane disastro sia lo stesso Nerone e non come
Tacito che rimaneva nel dubbio sulla questione. Quando Cassio Dione ci parla delle
abitudini sessuali del principe, queste si avvicinano molto a quelle descritte
da Svetonio.
«Nelle ultime righe del racconto di
Cassio Dione è ancora aggiunto il particolare che egli era, non soltanto
l’ultimo dei discendenti di Augusto, ma anche l’ultimo dei discendenti di Enea,
osservazione che non ha corrispondenza nelle altre due fonti e che Cassio Dione
ripete. I confronti fatti fra Tacito e Cassio Dione fanno apparire che, per
qualche parte, vi sono relazioni evidenti anche fra Cassio Dione e Svetonio.
Ammettendo come possibile che la fonte di Cassio Dione sia una sola,
bisognerebbe ammettere che questa fonte unica è comune a tutti e tre gli
autori, ovvero che tutti hanno usato fonti plurime, almeno di non ammettere
altri più sofisticati rapporti con le fonti originarie. In complesso non è
facile formarsi un giudizio preciso su quanto ci rimane di Cassio Dione, poiché
non si tratta di un testo completo, ma di un riassunto e di estratti».[38]
4-
GLI AUTORI CRISTIANI
Riguardo gli autori cristiani, di cui
analizzerò soltanto alcune figure, dobbiamo asserire che questi videro sin da
subito nella figura di Nerone la visione di un mostro o di una bestia che
ritorna e che prende le sembianze dell’Anticristo.
Già lo stesso
Lattanzio, scrittore latino-cristiano di origine africana (circa 250 – 330
d.C.), negli opuscoli "L'ira di Dio"
e in special modo "Sulla morte dei
persecutori", trovò accenti di estrema asprezza contro gli imperatori
romani avversi ai cristiani e ne presentò la fine miserevole come segno della
collera di Dio. Tra questi, appunto, rientra anche la figura di Nerone: Lattanzio
afferma che l'Imperatore non si limitò alla persecuzione dei cristiani
solamente nella capitale ma che abbia abbracciato questa linea anche in tutto
l'impero. Ciò è improbabile però, dato che non esistono altre fonti in merito e
che Lattanzio non poteva avere cognizioni precise degli avvenimenti svoltisi
sotto Nerone.
Inoltre il Cristianesimo, intorno all'anno 60, non aveva per le autorità
romane un'importanza tale per cui queste si sentissero obbligate a procedere
contro questo movimento con misure legali.
La leggenda dell’Anticristo, nel corso del Medioevo, riprende un certo
risalto e, sebbene nel corso dei secoli molti sovrani furono visti come dei
veri e propri Anticristi, sarà proprio la figura di Nerone che ricorrerà per la
maggiore. Tutto questo fu causato da una serie di leggende e superstizioni che vengono
fatte risalire all’Apocalisse.
«Come è noto, questa visione apocalittica fu composta pochi anni dopo la
terribile persecuzione neroniana ed i martirii inflitti ai Cristiani, accusati
da Nerone di avere appiccato l’incendio a Roma. Nell’Apocalisse l’Imperatore è raffigurato sotto la forma della Bestia.
“Tutta la terra dice il visionario (cap.
XIII), si mise ad adorare la Bestia dicendo: chi è da paragonarsi con la Bestia
e chi può combattere con lei? E le fu dato una bocca che proferiva parole
arroganti e bestemmie e le fu data potestà di agire per quarantadue mesi. Ed
ella aprì la bocca per bestemmiare contro Dio, per bestemmiare il suo nome, il
suo tabernacolo e quelli che abitano nel cielo. E le fu concesso di far guerra
ai Santi e di vincerli”.
E nel cap. XVII:
“la Bestia che hai
veduto era e non è più: sta per salire dall’abisso e per andarsene in
perdizione; e gli abitanti della terra, cui nomi sono iscritti nel libro della
vita, fin dalla creazione del mondo, si stupiranno a veder che la Bestia era e
non è più e sta per riapparire”.
Queste ultime
parole “sta per riapparire” accennano alla credenza dell’apparizione
dell’Anticristo».[39]
Il ricordo della figura di Nerone riaccende quindi l’idea al profeta che
Roma, la quale rappresenta la nuova Babilonia, sia intrisa dalla corruzione e
dalla depravazione auspicandone quindi la sua distruzione tramite le fiamme più
vivaci. Nel Martirio di San Pietro[40]
si leggono, al capitolo II, le seguenti parole:
“ma avvicinandosi il tempo in cui la
fede e il lavoro del Beato Apostolo dovevano essere rimunerati, il capo della
perdizione, cioè l’Anticristo Nerone, il colmo di ogni iniquità prevenendolo
comandò che egli fosse preso e chiuso in carcere squallidissimo con catene ai
piedi”.
Colmo di ogni iniquità è quindi
rappresentato l’Imperatore Nerone. Nella seconda lettera di Paolo ai
Tessalonicesi, il personaggio dell’Anticristo è chiamato “Figlio della
perdizione” ed è proprio con questo termine che Paolo identifica l’ultimo della
dinastia Giulio-Claudia. Lo stesso San Gerolamo scriverà che, per la sua crudeltà
e turpitudine, Nerone sarebbe stato il vero Anticristo.
L’ autore Sulpicio Severo che scrisse il suo Chronicon intorno all’anno 400 d.C. ci dice che Paolo venne a Roma
durante il regno di Nerone, “il quale non solo di tutti i re e di
tutti gli uomini, ma anche di tutte le bestie fu il più sozzo, sicché nell’ opinione
di molti egli fu ritenuto precursore dell’Anticristo”.
«Nella tradizione degli scrittori cristiani rimase viva e potente la
voce dell’Apocalisse, ed era
trasparente nella Bestia di quel libro, nebulosamente profetico, l’allusione a
Nerone persecutore dei cristiani. (…) Naturalmente questa credenza in Nerone
redivivo e tornante alla fine dei secoli non passò senza acri derisioni e forti
opposizioni. Lattanzio nel suo libro la tratta come forma di delirio. Egli anzi
dice che il credervi è peccato, come peccato credere che siano due i profeti
riserbati alla fine del mondo. Anche Sant’Agostino nell’opera De Civitate Dei parla a lungo di tal
credenza; ma conclude che essa è molto strana. Malgrado la critica di scrittori
così autorevoli la leggenda rimase e si trasmise, benché molto limitatamente.
Ne troviamo ancora un cenno nella cosiddetta corrispondenza fra Seneca e Paolo.
Come è noto, questa corrispondenza è una falsificazione di età posteriore, e
probabilmente è una traduzione di un originale greco, che si aveva in due
redazioni, e di cui ci rimase, tradotta in latino, solo la redazione minore.
Ora nella dodicesima lettera si legge: “Cotesto grassatore, chiunque egli sia,
a cui la carneficina è voluttà, e la menzogna è il mezzo di celarsi, è
destinato al tempo suo. Come dei buoni ciascuno è consacrato per la redenzione
di molti, così questo maledetto per la redenzione di tutti dovrà essere
abbruciato dal fuoco” (Senecae opera, edit. Haase, Supplementum, p. 78.). In questo passo sono conservati i particolari e i colori della
leggenda Neroniana: vi si dice infatti che l’Anticristo è un grassatore, che è
destinato alla fine dei secoli, che è già maledetto, che sarà condannato al
fuoco eterno».[41]
La fede nella venuta dell’Anticristo si concepì oltretutto nel pensiero
del popolo che vedeva nella caduta dell’Impero di Roma la fine dei tempi. Con
questa visione nacque inoltre una leggenda che narrava l’arrivo dei Goti, i
quali avrebbero preso la città eterna e dallo stesso canto avrebbero liberato
dalla condanna pagana i cristiani. Ma nel frattempo la leggenda ci narra anche
il riemergere della figura di Nerone: il quale si riappropria di Roma e si
associa al potere altre due figure. Egli non si configura nella vera e propria
rappresentazione dell’Anticristo, ma più precisamente in quella del suo
profeta: sorge anzi contro di lui il vero Anticristo, che è a capo dei Persi,
dei Medi, dei Caldei e dei Babilonesi. Il
vero Anticristo arriva a sconfiggerlo e ad ucciderlo insieme ai suoi stessi
compagni. Questa leggenda viene menzionata da San Gerolamo, Sant’Agostino e da
Sulpicio Severo fino ad arrivare nel Medioevo profondo.
Il contemporaneo Massimo
Fini scrive inoltre: "Pochi personaggi storici hanno goduto di così
cattiva stampa come Nerone”. Per tutto il Medioevo la leggenda di
Nerone-Anticristo ebbe infatti larga presa: “Papa Pasquale II (1099-1118) si
convinse che i corvi che gracchiavano sul noce vicino alla tomba dei
Domizi-Enobarbi (da cui l'Imperatore discendeva) fossero demoni al servizio di
Nerone o lo stesso Nerone in attesa di reincarnarsi. Perciò abbatté noce e tomba
e al loro posto eresse una cappella che si sviluppò poi nell'attuale chiesa di
Santa Maria del Popolo”.[42]
CAPITOLO
TERZO
Gerolamo Cardano
1-
VITA
E OPERE
Gerolamo Cardano nasce a Pavia il 24
settembre del 1501 e muore a Roma il 21 settembre del 1576. Fu scienziato,
umanista, filosofo naturale, medico, astrologo e matematico di fama mondiale.
Addottoratosi in Medicina a Padova nel
1526, nel 1534 ottenne l’incarico di insegnante di Matematica a Milano, pur
continuando nell’esercizio medico. Nel 1544 fu professore di Medicina a Pavia;
tornato a Milano, si dedica alla composizione della Ars Magna (1545), un’opera di algebra che fa del Cardano una delle
figure più illustri della scienza del Rinascimento, ma che gli procurò aspre
polemiche circa la priorità della scoperta della soluzione dell’equazione di
terzo grado (la cosiddetta “formula di Cardano”) contestatagli dal matematico
N. Tartaglia per un decennio.
Pare infatti che parte della soluzione
dell’equazione cubica gli fosse stata comunicata dallo stesso Tartaglia; la
soluzione è detta comunque di Cardano-Tartaglia.
«Il Cardano fece inoltre ricerche, in
vari campi della Fisica: un celebre teorema sui moti ipocicloidali,
l’invenzione della sospensione che da lui prese nome, una dimostrazione
dell’impossibilità del moto perpetuo e studi sulla densità dei corpi in base
alla loro rifrazione. La sospensione è articolata in modo da permettere ad un
oggetto ad essa collegato la rotazione in qualunque senso. Tale tipo di sospensione
è adoperato soprattutto nelle costruzioni navali e ad essa è collegata la
scatola della bussola perché ai vari movimenti delle imbarcazioni, dovute alle
condizioni del mare, lo strumento mantenga sempre la posizione orizzontale onde
consentire l’orientamento. Inoltre fu l’inventore del “cardano”, un giunto
articolato che consente la trasmissione del moto rotatorio tra due alberi
concorrenti in un punto, formanti tra di loro un angolo quasi piatto (giunto
che viene tuttora usato in molteplici veicoli). Ma, autentico esponente della
cultura rinascimentale, Cardano fu anche scrittore e filosofo di posizione
intermedia tra Telesio e Bruno con la sua maggiore opera filosofica: il De subtilitate (1547), vera enciclopedia
scientifica del tempo, con frequenti appelli all’esperienza contro le opinioni
di Aristotele. Nel 1562 Cardano fu imprigionato a Bologna dall’Inquisizione
perché sospetto di tendenze eretiche e nel 1570 proprio il suo libro De rerum varietate (1557) fu incriminato
dal tribunale dell’Inquisizione che costrinse Cardano ad abiurare e ad abbandonare
l’insegnamento. Scrisse inoltre un’autobiografia (De vita propria), pubblicata postuma nel 1643».[43]
CAPITOLO QUARTO
Il Nerone “Moderno” nell’opera di
Gerolamo Cardano “Neronis Encomium”
1-
IL
CONTESTO
Gerolamo Cardano nella sua sterminata
opera di scrittore ci ha lasciato anche il Neronis
Encomium. Scrisse il presente trattato nel 1562
in anni dominati dalle idee machiavelliane, da dove egli prese spunto. L'epoca
in cui Cardano porta a termine la sua opera, si identifica in anni decisivi per
i destini di Milano in quanto l'Imperatore Carlo V cedeva lo stato milanese
nelle mani di Filippo II, suo figlio, il quale portò a termine una radicale
riforma amministrativa allo scopo di limitare l'eccessivo potere del senato,
dannoso per lo stesso sovrano. Cardano quindi si ispira alla realtà del periodo
nel quale vive rapportandolo allo strapotere senatorio che dilagava nell'antica
Roma. Alcuni storici, tra i quali Antonio Corsano[44], hanno
accusato Cardano di avere un interesse per la figura di Nerone attraverso il
suo risentimento personale nei confronti del senato milanese, colpevole di aver
decretato la morte dello stesso figlio, Giovanni Battista Cardano che fu
decapitato il 9 aprile del 1560 per tentato avvelenamento alla moglie.
Tornando alla tesi di Corsano, questa interpretazione appare però poco
convincente in quanto la gestazione dell'Encomium era già precedente
alla condanna del figlio. Nell’Encomium,
Cardano non si limita a rivalutare la figura di Nerone ma giunge a definire
Lucio Domizio Enobarbo come esempio di optimus
princeps mettendo in discussione pertanto la vulgaris opinio su Nerone.
2- NERONE E I CRISTIANI
Venendo al tema che fa
dell’Imperatore un grande persecutore dei cristiani, per esempio, Cardano ci
dice che:
“in
primo luogo gli si rimprovera la crudeltà mostrata contro i cristiani,
nell’occasione in cui fece uccidere anche Pietro e Paolo (questi furono
condannati a morte nel ’64 d. C. durante la persecuzione connessa con
l’incendio di Roma n.d.r.), è molto vicina all’empietà. Fu una cosa spiacevole,
certo, ma coinvolse anche molti altri Principi, quali Traiano, Decio e
Diocleziano: eppure la si rinfaccia solo a Nerone”.[45]
Dobbiamo tenere
presente che anche Decio fu responsabile di un’estesa persecuzione contro i
cristiani avvenuta nel 250-251 d.C. e per quanto riguarda Diocleziano, l’Imperatore
stesso volle farsi chiamare dal popolo Iovius,
figlio di Giove, e allo stesso tempo attuò verso i cristiani una feroce
persecuzione tra il 303 e il 304 d.C.
“Infatti
è dovere del principe saggio quello di salvaguardare la religione presente e di
antica tradizione. Così fecero gli Antonini, gli altri ottimi principi e gli
uomini onesti. Paolo all’inizio perseguitò i cristiani poi lui stesso divenne
vaso d’elezione. Se un errore dev’essere considerato un delitto, allora Nerone
in tale questione, non fu meno colpevole. Ma neppure Tacito e Svetonio accusano
di ciò Nerone, piuttosto del fatto che avesse denunciato come autori
dell’incendio degli innocenti. Se si analizza bene la questione, appare evidente che Nerone non fu
odiato solo dai cristiani, che a quel tempo erano già abbastanza numerosi, ma
anche da tutti gli altri: i cristiani lo detestavano perché li aveva condannati
crudelmente per una falsa accusa; il popolo, in particolare i sacerdoti degli
idoli, perché in passato egli aveva sempre impedito che quelli fossero
condannati per la loro religione. Perciò, ardendo di invidia, diffusero la voce
che autori dell'incendio fossero stati i cristiani, incitarono la folla contro
di loro: Nerone allora permise di punirli, e in tale decisione i suoi nemici
trovarono il pretesto per insultarlo, come se avesse comminato una punizione
per un'accusa falsa o di poca importanza: infatti ritenevano l'incendio di Roma
un delitto meno grave rispetto alla negligenza del culto dei loro dei”.[46]
Cardano continua dicendo che:
" Ma se
Nerone va criticato per i supplizi inflitti ai cristiani, ancor di più devono
essere accusati Traiano, Decio e gli Antonini, che, senza alcun motivo e senza
l'ombra di un sospetto, li condannarono addirittura con un editto (bisogna
chiarire però che in verità solo Decio emanò un editto generale come detto
prima mentre gli Antonini si limitarono a dei rescritti legati a particolari
casi n.), loro che erano considerati miti e pieni di umanità! Nerone non li
condannò i cristiani con un editto ma solo in conseguenza
dell'incendio, e sebbene fosse considerato crudele, non ricorse alla sua
autorità imperiale per colpire. Fu costretto ad avversare i cristiani da uno
scherzo del destino e ciò gli è stato rinfacciato come
una colpa. Gli altri imperatori, che li odiarono con consapevolezza, i
cristiani li lodano come uomini onesti ".[47]
A sostegno di quello che descrive e per rafforzare la sua tesi in cui
afferma che Traiano non è poi così pio e clemente, Cardano ci cita uno scritto
dello stesso Traiano inviato a GAIO PLINIO CECILIO SECONDO, detto il giovane
(61-113 d. C.), nipote di Plinio il Vecchio, avvocato, questore, prefetto
dell'erario, console e legato imperiale in Bitinia, famoso per il suo
panegirico a Traiano che dice questo:
"Mio caro
Plinio, hai fatto ciò che dovevi nell'esame delle cause di quelli che ti erano
stati denunciati come cristiani, perché non si può istituire una regola
generale che abbia, per così dire, una forma fissa. Non c'è bisogno di perseguirli d'ufficio. Se
vengono denunciati e si dimostra la loro colpevolezza, bisogna condannarli, ma
con la seguente restrizione: chi negherà di essere cristiano e ne darà con i
fatti la prova manifesta sacrificando i nostri dèi, anche se in passato sia
stato gravemente sospettato, otterrà il perdono come premio del suo pentimento.
Quanto alle denunce anonime, esse non devono essere prese in considerazione:
sarebbe di pessimo esempio e del tutto contrario ai valori del nostro impero”. (PLIN., Ep., X 97)
Traiano, come ci ricorda Cardano, ebbe per così dire la fortuna che la
sua anima fosse stata richiamata dall'inferno, dicendo questo Cardano fa
riferimento alla leggenda di Traiano dove si narra che San Gregorio Magno,
udendo il racconto della benevolenza di Traiano verso una vedova, avrebbe pregato
per l'anima dell'Imperatore, procurandogli così la salvezza.
Dante addirittura inserisce Traiano nel suo canto ventesimo del
Paradiso. Canto che si svolge nel cielo di Giove, ove risiedono gli spiriti dei
principi giusti. In sintesi, Traiano torna dall'Inferno per le fervide
preghiere di san Gregorio Magno, che ottenne da Dio che egli risuscitasse per
breve tempo, e in quel tempo si accese tanto di amore divino da guadagnarsi la
beatitudine alla seconda morte.[48]
3- NERONE A CONFRONTO CON GLI ALTRI PRINCIPI
Venendo al carattere di Nerone, l'autore dell'Elogio, Cardano, ci
tratteggia un uomo mite e ribalta la ottima impressione che invece per
conoscenza scolastica forse non abbastanza approfondita, abbiamo nei confronti
di determinati imperatori passati alla storia come "buoni principi".
Cardano per esempio attraverso le sue parole ci dice che “Nerone non
danneggiò mai né i provinciali, né gli alleati né gli Italici; condannò a morte
o all' esilio solo pochissimi senatori e ottimati infami e degni di ogni
supplizio dello stesso senato, e non aggravò mai le pene da esso comminate,
anzi spesso le diminuì o le annullò del tutto. Fu sempre a disposizione del
popolo, dei poveri, degli onesti, delle persone colte. Il resto delle condanne
lo rivolse contro l'ambizione e il potere dei suoi ottimati, e perciò dovrebbe
essere considerato mite e giusto come Nerva e Traiano”.[49]
In seguito, l'autore ci elenca una serie di comportamenti che tennero
alcuni principi per fare un paragone con la figura di Nerone, ad esempio, ci
narra:
"Ma torniamo
a quei sant'uomini di Cesare, Vespasiano, e degli Antonini. Prima vorrei dire
qualche parolina su Tiberio, non certo per paragonarlo a Nerone, ma per
mostrare quanto sia stato più crudele di lui. Vediamo piuttosto
come si sia comportato nei confronti di quel pescatore che, mentre lui
(Tiberio) si trovava in un luogo isolato, all' improvviso gli offrì una
grandissima triglia; Tiberio si spaventò, e per punizione ordinò di
strofinargli in faccia la triglia; poiché il pescatore, mentre subiva
l'ingiusto castigo, manifestò la sua gioia per non avergli offerto un'aragosta
altrettanto grande, Tiberio gli fece strofinare in faccia anche un'aragosta”.[50]
“Di azioni di
questo genere ne fece un'infinità, superando ogni immaginazione. Non voglio
ricordare tutti gli eruditi suoi amici che fece eliminare anche per cause
insignificanti: dei venti assistenti che aveva richiesto allo stato per le
questioni amministrative, ne lasciò in vita non più di due o tre. La sua indole
feroce gli fu rimproverata sin dall' infanzia da Teodoro di Gadara, il suo
insegnante di retorica, che lo aveva soprannominato "fango intriso di
sangue". Non finirei più se dovessi enumerare tutte le crudeli imprese di
questo mostro”.[51]
Continuando nella sua descrizione Cardano ci informa che...
"penso che l'espressione più crudele di
Nerone non riguardi assolutamente Domizio Nerone, che è il protagonista della
mia opera, ma proprio Tiberio, che superò in crudeltà tutti gli uomini; se non
si vuole accettare questa ipotesi, si dovrà almeno ammettere che l'espressione
accomuna i tre Neroni; Tiberio, Claudio e Domizio. Infatti, benché Claudio si chiamasse Tiberio Claudio Druso,
suo padre si chiamava Nerone Druso.
Del resto, i
discendenti di Tiberio, dico di Tiberio padre di Tiberio e Druso, che precisamente
si chiamava Tiberio Nerone, che erano Tiberio Claudio e Domizio, furono tutti
crudeli; ciascuno però per motivi diversi: Tiberio per la disonestà, Claudio
per la stupidità e Domizio per la severità. Ma tralasciando
queste storie, che non ci interessano, proviamo a confrontare Nerone con i
principi migliori, anzi con quelli che sono stati divinizzati: cominciamo da
Giulio Cesare, il quale, seppure non commise delitti contro i propri parenti,
fece di peggio: tradì la repubblica e la ridusse in schiavitù; a proposito di
crudeltà, uccise trecentomila Germani contro ogni norma giuridica e morale,
visto che erano alleati.
Perciò Catone - Catone
d' Utica 95-46 a.C., pronipote di Catone il Censore e tribuno nel 62 a.C.,
lottò contro Pompeo e Cesare, ma poi si schierò con il primo e contro il
secondo. Dopo la battaglia di Tapso, non potendo più a lungo difendere Utica,
si trafisse con la spada per non cadere nelle mani di Cesare - espresse il
parere che, per espiare un delitto così grave e liberare lo stato dall' infamia
e dal disonore, lo si dovesse consegnare ai parenti di quelli che aveva
ingiustamente fatto ammazzare (…)”.[52]
“E c'è chi osa
paragonare quest'uomo, sanguinario più di ogni altro, a Nerone! Ma ciò che è
peggio è che la sua sete di sangue era dovuta soltanto all' ambizione, all'
avidità e alla crudeltà, cosicché le cause del suo comportamento criminoso
erano più turpi dei suoi stessi crimini. Cesare dunque può paragonarsi a Silla
e Mario”.[53]
L'autore dell'Elogio rincara la dose dicendo che:
"Perciò è
evidente che Nerone fu un principe, non un tiranno, e che fu clemente; al
contrario Giulio Cesare fu un crudelissimo tiranno, non un principe. Tuttavia
gli uomini erano giunti a un tale grado di follia, da vedere crimini dove non
ce n' erano e fingere di non vederli dove invece ve ne erano di tanto grandi,
da venir rimproverati anche da Plinio. Tutto ciò fu la conseguenza del regime
di terrore instaurato dai successori di Cesare, che non solo condannarono e
mandarono al rogo gli scritti di chi proclamava la verità, ma fecero
giustiziare gli autori stessi di quelle opere, dopo aver anche confiscato i
beni ai loro eredi. Venne accusato di lesa maestà, e condannato a morte anche
chi scherzava sul divo Giulio o sul divo Augusto, o non si mostrava zelante e
pieno di adulazione nei confronti della loro memoria. Nerone invece, poiché gli
succedettero principi del tutto estranei alla famiglia Giulia, dovette subire
tutti gli odi, la malevolenza e il disprezzo che furono concepiti durante l'impero
dei Giulii, e che furono scaricati contro di lui in modo ingrato, ingiusto e
ipocrita, solo perché non c' erano altri con cui potersi sfogare. E se i
delitti dei suoi antenati non fossero stati tanto atroci e incredibili,
sarebbero rimasti nascosti per sempre, perché la ferocia copre la ferocia".[54]
Cardano nella sua opera mette anche a confronto Nerone con uno dei suoi
successori come Vespasiano che fu un uomo non appartenente alla vecchia
aristocrazia romana, ma di estrazione italica. Egli infatti è nato a Rieti nel 9
d.C. e dopo aver ricoperto alcuni incarichi sotto Caligola (edile e pretore) ha
combattuto per Claudio in Gallia e Britannia. Inviato in Giudea nel 67 d.C.
cerca di riportare con la forza l'ordine nella regione. È un soldato, e soldato
rimarrà fino alla fine. L'anno dei quattro Imperatori, il 69, si chiude con la
sua ascesa.
Cardano nel suo elenco dei vari principi-imperatori ci dice: "Vespasiano che
è considerato concordemente un principe ottimo e mite; inoltre la sua azione
politica è nota a tutti, perché, grazie al fatto che la sua famiglia rimase al
potere per soli ventotto anni (con i suoi successori Tito e Domiziano), non si
poté nasconderla o modificarne strumentalmente i contenuti. La famiglia Giulia,
invece, regnò per centoquattordici anni, cosicché tutta la memoria storica di
quel periodo sotto Vespasiano era ormai stata cancellata. Infatti quasi tutte
le opere scritte furono distrutte dagli editti dei crudeli governanti. La
famiglia Giulia fu una fiaccola ardente suscitata dall'Inferno per ordine della
giustizia divina allo scopo di punire i tanti mali causati dall'empio popolo
romano. Di questa fiaccola l'estremità fu Nerone e, come tutte le cose che
giungono alla fine, non solo fu debole, ma anche indulgente e mite: la vendetta
divina era stata compiuta e dunque egli poteva volgersi alla giustizia e alla
clemenza. Ma poiché i crimini di guerra e gli altri delitti commessi dall'instaurazione
dell'impero ereditario rimanevano invendicati, Dio mandò in successione quattro
diversi principi, i quali, per la loro furiosa ambizione, condussero gli
eserciti a combattere fra di loro, infliggendosi a vicenda ferite
mortali".
"Vespasiano,
che non fu un ottimo principe ma fu molto astuto, va detto che Svetonio, in
perfetta malafede, nascose i suoi delitti, favorendolo per qualche ignoto
motivo”.[55]
C’è da dire infatti che lo stesso Svetonio nella sua Vita di Vespasiano
al capitolo 12 descrive così l’Imperatore: «dall’inizio fino alla fine del suo
principato, fu semplice come un contadino e clemente (…) lungi da ricercare con
avidità qualche pompa esteriore…».
“Tuttavia si sa
che, durante le guerre civili, quando si impadronì dell' impero con la forza e
senza averne alcun diritto, fece scorrere molto sangue di concittadini e
commise molti crudeli delitti, ma per mezzo dei suoi uomini, più che
personalmente, e in particolare per mezzo di suo figlio, ma anche di Antonio e
di Muciano”[56] (il primo senatore e abile generale al servizio di Vespasiano, il
secondo, console nel 66 d.C. sotto Nerone, poi governatore della Siria, sarà
uno dei maggiori sostenitori di Vespasiano e, sotto di lui, console nel 70 e 72
d.C.).
Plutarco ad esempio ci lascia scritto questo nei confronti del
capostipite della famiglia dei Flavii:
“Vespasiano
uccise Empona, e dopo non molto pagò il fio di questo ingiusto assassinio con
l'estinzione di tutta la sua stirpe. Benché allora fossero stati compiuti molti
delitti crudeli, quel principato non subì nulla di più doloroso. Gli déi
immortali odiarono questo crimine più di ogni altro, seppure al momento
dell'esecuzione dell'animo degli spettatori scomparve ogni misericordia, a
causa del contegno fermo e determinato della condannata. Tanto più ne fu
irritato Cesare. Dopo che quella ebbe perduta la speranza della grazia, chiese
infatti di essere uccisa e sepolta al più presto: diceva che sarebbe stata più
felice sottoterra, in luoghi tenebrosi, che alla luce del sole e delle stelle
durante il regno di Vespasiano”.
(PLUT., Amatorius, xxv, 16)
“È dunque evidente
che Vespasiano fu un principe crudele e sanguinario, ma abile a dissimulare la
sua crudeltà (…) Inoltre Vespasiano fece uccidere Pisone, proconsole d' Africa,
ed ebbe pessimi ministri, tra cui Bebio Massa. Uccise anche Germanico, figlio
di Vitellio, innocente, ed Elvidio Prisco – un uomo così onesto, che Nerone lo
lasciò andare libero, benché fosse genero di Trasea e sospetto di lesa maestà –
solo per aver pronunciato poche parole".[57]
Parole non meno forti ci arrivano dall' autore dell'Elogio quando ci
parla degli Antonini dove viene completamente smontata la visione di principi
buoni e clementi. Questo è quello che ci narra in merito Cardano ....
"Ma veniamo agli Antonini, a
proposito dei quali è diventata proverbiale la frase: Sii più santo di
Antonino, migliore di Traiano, più fortunato di Augusto. Essi ripeterono il
comune errore di favorire i senatori e gli ottimati, trascurando i poveri, considerati
esseri inferiori (mentre invece gli uomini più famosi per virtù ed erudizione
hanno spesso avuto un'umile origine). Entrambi impedirono che venisse ucciso un
solo senatore, fino al punto di voler perdonare Cassio che aveva tentato un
colpo di stato e muoveva guerra a Marco (Cassio era governatore della Siria
sotto Marco Aurelio; nel 175 d.C., si ribellò all' imperatore, ma la sua
rivolta fu repressa nel sangue).
Ne derivò che i Marcomanni e i
Germani non furono ricacciati nelle loro province, e questa, alla fine, fu la
causa della caduta dell'impero romano.
Antonino Pio invece non volle giustiziare un senatore omicida. Che bell'
esempio! Che idiozia! Di fronte a un delitto tanto grave si limitò a farlo
deportare su un'isola, perché potesse rapinare e assassinare impunemente.
Inoltre, ai figli dei magistrati condannati per concussione furono restituiti i
beni, purché dessero soddisfazione ai provinciali.
Che significato poteva avere una cosa del genere, se non quello di
rassicurare i ladri, visto che agli accusati di cui non si era potuta
dimostrare la colpevolezza non veniva confiscato nulla, mentre i beni dei
colpevoli venivano restituiti ai figli? La cosa peggiore che poteva capitare
era di doverli restituire! (…) Che razza di clemenza è quella che consente ai
disonesti di spogliare impunemente gli innocenti? (…) Dunque questi principi
sono chiamati clementi perché perdonano gli scellerati che sono potenti, ma
intanto, con tributi e dazi prosciugano i popoli fino ad annientarli anche
nella loro discendenza per la fame, il freddo e la disperazione".[58]
Poi prosegue dicendo:
“Vuoi vedere che questa umanità degli Antonini è tutta una farsa? Non è
forse vero che Antonino Pio spese somme enormi per spettacoli di gladiatori,
come se quelli che venivano sgozzati non fossero uomini, ma pecore o bestie
selvagge (...)? E a Nerone, che al posto di spettacoli di gladiatori, offriva
spettacoli teatrali, osano rimproverare la crudeltà!”.[59]
4- NERONE TRA RIFORME E DECISIONI
Cardano accusa anche le fonti storiche principali, tra le quali, gli "Annali" e le "Storie" di Tacito (n. 55-58 /
m. 117-120) e le "Vite dei dodici
Cesari" di Svetonio (n. 70 / m. 126).
Nelle pagine di Cardano questi infatti vengono visti come i
rappresentanti di una società corrotta, idolatra ed ingiusta. L'autore paragona
lo stesso senato a un "latronum
collegium". Anche il curatore dell'opera di Cardano, Marco di Branco,
afferma che
"il giudizio
storico è un'arma nelle mani dei potenti che se ne servono per dare corpo ai
loro disegni; così la storiografia romana, diretta espressione dell'ordine
senatorio, ha condannato Nerone perché ha visto in lui un oppositore, un
pericoloso propugnatore di un progetto politico alternativo a quello degli
ottimati. Di questo progetto neroniano deve scomparire ogni memoria e ciò
spiega secondo l'autore, l'esclusione degli editti dell'ultimo dei
Giulio-Claudii dal Corpus iuris giustinianeo.... ".[60]
Cardano ci dice che Nerone era di nobile stirpe ma che era nato
purtroppo "sotto una cattiva
stella" tra gli odi del popolo romano e del senato e che fu vittima
delle decisioni e delle malvagità commesse dai precedenti principi. Nerone fu
ingannato dalla stessa madre Agrippina e dal suo stesso maestro Seneca,
definito da Cardano come il più crudele degli uomini, entrambi considerati
responsabili di avergli impedito di studiare filosofia.
Parlando delle leggi e delle azioni positive di Nerone, l'autore pavese
sottolinea che l'Imperatore aveva cura dell'approvvigionamento di grano per il
popolo e che durante il suo impero non si soffrì mai la fame se non nell'ultimo
periodo del suo principato (verso il 68 d. C.) periodo in cui si voleva
deporlo. Donò anche allo Stato
60.000.000 di sesterzi all'anno.
Cancellò le tasse del 2,5 % e soppresse l'imposta del 4% sull'acquisto
di schiavi. Ordinò inoltre che fossero pubblicate le leggi riguardanti gli
appalti delle tasse, che erano state fino ad allora tenute nascoste per poter
imbrogliare i contribuenti. Nerone inoltre non accrebbe l'impero con la
violenza, come fece Traiano, né con il turpe inganno, come fece Tiberio.
Per quanto riguarda la fase di espansione e di controllo della pace,
come dice Cardano, "Nerone non fu
inferiore a nessun altro principe". Nerone mosse guerra ai Parti che
avevano occupato L'Armenia e questa guerra fu considerata "giusta" dall'autore in quanto i romani stavano subendo
una grave minaccia proveniente da un forte nemico esterno. L'Imperatore fu il "restauratore dell'arte militare",
arte che era stata trascurata da individui come Claudio, Caligola e Tiberio.
Come ci ricorda Cardano, grande estimatore e ricercatore della verità, Nerone
onorò sia il patrigno Claudio che la madre Agrippina, benché Seneca, suo
mentore, lo avesse esortato in senso contrario, come si evince dagli squallidi
versi del suo precettore Seneca contro Claudio.
Nerone, all'inizio del suo principato, affermò che il suo governo
avrebbe avuto gli ideali e le forme di quello maestoso di Augusto e non perse
occasione di dimostrarlo. Svetonio, sebbene fosse un suo delatore, ci dice
anche che abolì le imposte più gravose, fece distribuire al popolo 400 sesterzi
a testa e adottò un limite al lusso.
Cardano aggiunge che il sovrano ha voluto affrontare tutti questi
argomenti per dimostrare che a Nerone non mancò né il coraggio né
l'intelligenza per compiere grandi imprese civiche; fu moderato nel gioco ma
venne criticato perché preferiva dedicarsi all'arte canora, musicale, di
partecipare con l'auriga alle corse ippiche e allo stesso tempo disprezzava i
combattimenti tra gladiatori e tra animali feroci (venationes).
Sebbene gli si rinfacci la ferocia, l'incendio di Roma e la crudeltà nei
confronti dei Cristiani, si deve ricordare che l'uccisione di Claudio avvenne
per "mano" di Agrippina e
per quanto concerne i Cristiani, poi, Nerone non emise alcun editto contro di
loro e non ricorse all'autorità imperiale per colpirli mentre altri "ottimi principi", come
Traiano ed il filosofo Marco Aurelio, furono molto più intolleranti nei loro
confronti. Nerone non era avido di denaro come lo stesso Cardano ci ricorda, a
differenza di imperatori come Vespasiano considerato avido.
Dal libro di Cardano, emerge che coloro che, orchestravano il potere,
hanno affossato Nerone. Anche Cicerone (I secolo a.C.) è visto in maniera
negativa da Cardano per i suoi costumi corrotti e narcisistici. Nerone quindi
fu vittima dei suoi predecessori che corruppero la Repubblica prima e l'Impero
poi, con il solo intento di far emergere la loro brama di potere ed avidità. E
nell'ambito del famoso incendio del luglio del 64 d.C., lo stesso Tacito, più
vicino agli eventi narrati dei più tardivi Svetonio e Dione Cassio, fa emergere
persino la sua incredulità e dubbio sul fatto che Nerone fosse l'artefice
dell'incendio dell'Urbe romana mentre gli altri due sopraccitati lo additano
con fermezza come principale responsabile del disastro avvenuto. Pace,
benessere e giustizia sono per Cardano le tre fondamentali caratteristiche del
governo e del regno di Nerone.
Conclusioni
Abbiamo delineato la figura storica di Nerone. Abbiamo affrontato le
fonti storiografiche principali: Tacito, Svetonio, Cassio Dione e i principali tra i detrattori cristiani. Ci siamo quindi
avvicinati alla biografia di Gerolamo Cardano e alla sua opera. Dell’opera Neronis Encomium possiamo prendere come
chiave di lettura 4 punti principali di Cardano:
·
La persecuzione dei cristiani: Nerone non ha
mai perseguitato i cristiani con l’obiettivo fondante dell’odio religioso nei
loro confronti, ma rimase piuttosto neutrale, anche se condizionato in alcuni
frangenti dai sacerdoti degli idoli che ne erano da sempre accusatori. Questi,
infatti, approfittarono dell’evento incendiario per portare l’Imperatore alla
loro causa e per orientarlo ad adottare misure persecutorie.
·
Le guerre: Nerone non ha avuto come scopo
primario l’espansione del proprio impero ma se attuò delle guerre, come quella
contro i Parti, ciò avvenne per difendere i territori da minacce esterne.
·
Il carattere del principe: Nerone amava il piacere
delle arti e si può dedurre che non fosse poi così “tiranno” e peggiore dei
suoi predecessori e successori.
·
Le sue decisioni: Nerone, fino
all’ultimo periodo di principato, venne sempre in aiuto del suo popolo
elargendo donativi anche dopo il tragico incendio.
Un importante studioso dell’opera di Gerolamo Cardano, Marco Di Branco,
ritiene che l’Imperatore rappresentasse una figura carismatica sia nel bene che
nel male e che, al pacifismo neroniano, sia collegata la politica
anti-aristocratica dello stesso principe.
Aggiunge anche - cosa che a noi in questa sede interessa maggiormente - che l’opera storiografica e filosofica di
Cardano manifesta «(…) una profonda conoscenza del dibattito politico
cinquecentesco, e in special modo delle teorie machiavelliane. Ciò è del tutto
evidente se si prende in considerazione il Neronis
encomium, le cui idee fondamentali presentano notevolissime analogie con il
pensiero di Machiavelli: l’Encomium
potrebbe anzi essere addirittura definito un elogio del “principe civile
con il favore popolare” descritto nel IX capitolo del Principe. Il Nerone di Cardano possiede
infatti tutte le caratteristiche di questa figura politica: anch’egli trova la
propria fortitudo nel popolo e si
adopera per “mantenerselo amico”, abbattendo il potere consolidato dei
personaggi eminenti e prendendo in sé il patrocinio della giustizia,
dell’equità, dei deboli e degli infelici».[61]
I.
Bibliografia
Antonelli Luca, Nerone
(Autocrazia, Arte e delirio), EdiSES S.r.l., Napoli 2013
Cardano Gerolamo, Elogio di Nerone (A cura di Marco Di
Branco), Salerno Editrice S.r.l. Roma, 2008
Champlin Edward, Nerone,
Editori Laterza, Roma-Bari 2005
Corsano Antonio, Il
Cardano e la storia, in «Giornale critico della filosofia italiana», XLI
1961
Fini Massimo, Nerone
Duemila anni di calunnie, Mondadori, Milano 1994
Fontanella
Francesca, Storia illustrata di Roma
Antica, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze 2000
Levi Mario Attilio, Nerone
e i suoi tempi - Il vero ritratto
di un “princeps”, Rizzoli, Milano, 2001
Pascal Carlo, Storia e leggenda, Fratelli Melita Editori, Genova 1987
[1]
L. Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), EdiSES S.r.l., Napoli 2013, p. 2.
[2]
L. Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), cit., pp.15- 18.
[3]
L. Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), cit., pp. 29-30.
[4]
L. Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), cit., p.33
[5]
L. Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), cit., pp.33-34.
[6]
E.Champlin, Nerone, Editori Laterza,
p. 96.
[7]
E.Champlin, Nerone, cit., p. 187.
[8]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
Biblioteca Universale Rizzoli, pp. 228-229.
[9]
E. Champlin, Nerone, cit., p. 11.
[10]
E. Champlin, Nerone, cit., p. 13.
[11]
E.Champlin, Nerone, cit., pp. 13-14.
[12]
Ivi, p. 38.
[13]
E.Champlin, Nerone, cit.,
pp.42-44-46.
[14]L.
Antonelli, Nerone (Autocrazia, Arte e
delirio), p.124.
[15]
Tacito, Annali (a cura di Lidia Pighetti),
Volume II Libro XIII, capitolo 25, Mondadori 2007, p. 187.
[16]
Tacito, Annali, Libro XIV capitolo
51, cit., p. 305.
[17]
Ivi, capitolo 64, p. 327.
[18]
Ivi, Libro XV capitolo 38, p. 377.
[19]
Tacito, Annali, Libro XV capitolo 39,
cit., pp. 379-381.
[20]
Ivi, p. 381.
[21]
Tacito, Annali, Libro XV capitolo 44,
cit., p. 387.
[22]
Ivi, capitolo 45, p. 387.
[23]
Tacito, Annali, Libro XV capitolo 58,
cit., p. 407.
[24]
Ivi, capitolo 74, p. 429.
[25]
Svetonio, Vite dei dodici Cesari (a cura
di Gianfranco Gaggero), Libro VI capitolo 6, Rusconi Libri 1994, p. 519.
[26]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
Biblioteca Universale Rizzoli, 2001, p. 259.
[27]
Svetonio, Vite dei dodici Cesari, Libro
VI capitolo 16, cit., p.530.
[28]
Svetonio, Vite dei dodici Cesari, Libro
VI capitolo 19, cit., p.534.
[29]
Svetonio, Vite dei dodici Cesari, Libro
VI capitolo 32, cit., p.548.
[30]
Ivi, capitolo 38, pp. 559-560.
[31]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
cit., p. 265.
[32]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
cit., p. 266.
[33]
C. Dione, Storia Romana, introduzione
di Marta Sordi (traduzione di Alessandro Stroppa e note di Alessandro
Galimberti), Rizzoli, Milano, 2006, p. 409.
[34]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
cit., pp. 267-268.
[35]
C. Dione, Storia Romana, cit., p.
427.
[36]
Ivi, pp. 471-472.
[37]
C. Dione, Storia Romana, cit., p.
479.
[38]
M. A. Levi, Nerone e i suoi tempi,
cit., pp. 273-274.
[39]
C. Pascal, Storia e leggenda,
Fratelli Melita Editori, 1987, pp. 273-274.
[40] Martirium beati Petri; v. Acta apostolorum apocrypha post CONSTANTINUM
TISCHENDORF denuo edid. R. A. Lipsius
et MAXIUS BONNET. Pars I, Lipsiae, 1891.
[41]
C. Pascal, Storia e leggenda, cit., pp.
285-286.
[42]
M. Fini, Nerone Duemila anni di calunnie,
Mondadori, p. 6-7.
[43]
Enciclopedia Universale Fabbri, vol.
III, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1975, p. 394.
[44]
A. Corsano, Il Cardano e la storia,
in «Giornale critico della filosofia italiana», XLI 1961, pp.499-507, alle
pp.500 sgg.
[45]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), pp. 134-135.
[46]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp. 135-136.
[47]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., p. 136.
[48]
Dante Alighieri, Paradiso XX Canto, Divina Commedia - La salvezza di Rifeo e di
Traiano, vv. 79-129.
[49]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., p. 164.
[50]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp. 164-165.
[51]
Ivi, p.166.
[52]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp.172-173.
[53]
Ivi, pp.173-174.
[54]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp.174-175.
[55]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp.175-176.
[56]
Ivi, p.176.
[57]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp. 177-178.
[58]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp.178-179.
[59]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., p. 180.
[60]
Ivi, p. 11.
[61]
G. Cardano, Elogio di Nerone (A cura di
Marco Di Branco), cit., pp. 19-20.
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